NEW YORK 2001: LA PARTITA PIU’ IMPORTANTE DI SEMPRE


“Un incontro come questo si riduce a pochi colpi. E’ il difficile e il bello della situazione. Pete ha giocato alla grande i punti decisivi, è stato frustrante per me ma sono orgoglioso di averne fatto parte.”
(Andre Agassi)

Il quarto di finale tra Pete Sampras e Andre Agassi agli US Open 2001 fu il loro trentaduesimo incontro. Una rivalità iconica, che abbracciò interamente un’epoca e una generazione, l’ultima caratterizzata dall’egemonia americana. Se, nella storia dei confronti diretti, Pete era avanti 17 a 14, Andre era in striscia aperta da tre partite. Era evidente, osservando quella stagione, opposti alle nuove leve (Safin, Hewitt, Federer, Roddick..), la resilienza gagliarda di Agassi (classe 1970) rispetto al lento declino (dovuto soprattutto agli infortuni) del trentenne Sampras. Eppure il DecoTurf newyorchese, brutto, sporco e cattivo, parve riportare i due al centro dell’attenzione (e del pronostico) di tutti. Una finale di giovedì? Flipper, testa di serie numero due del tabellone, negli ottavi liquidò – con sorprendente facilità (6/1 6/2 6/4) – l’emergente Roger Federer, ovvero colui che a Wimbledon battè Sampras in un thriller di cinque set. Pistol Pete, dieci del draw (l’anno precedente era il due), regolò Patrick Rafter (6/3 6/2 6/7 6/4) in un’esibizione amarcord di serve and volley.


E’ appena terminata una partita straordinaria, forse la più bella dell’era Open.

Fin dalla vernice del match, nel prime time serale della CBS, si comprese il momento di grazia (esaltante per gli spettatori..) dei duellanti. Dall’apparizione nel circuito ATP, Andreino e Pietro sembravano opposti in ogni cosa. Il kid di Las Vegas estroverso, circense, eccessivo, quasi a compensare un rapporto irrisolto col padre drago e se stesso. Il figlio di immigrati greci invece introverso, silenzioso, antipersonaggio per eccellenza dello sport a stelle e strisce: Tim Duncan con la Wilson in mano. Il tennis di pressione continua, creato dall’anticipo perenne di entrambi i colpi da fondo campo, di Agassi: il giocatore più rivoluzionario, forse di sempre, che preconizzò i tempi. Le verticalizzazioni feline, supportate da uno chassis atletico da guardia NBA, di Sampras: il penultimo Campionissimo, prima di Federer, neoclassico. Che univa i gesti bianchi all’ultraviolenza del gioco moderno. Con Agassi finì la concezione del tennis a mò di dialogo balistico con l’avversario. L’altro diventò un burattino da sommergere di accellerazioni dal fondo. Agassi era Agassi senza le luxilon e l’omologazione delle superfici: nacque (..) così, una macchina sparapalle, Flipper appunto. Pistol Pete era sciabola e fioretto assieme, la reincarnazione ellenica di Pancho Gonzales: power tennis che alternava brutalità e purezza. La somma dei due ras, nei testa a testa, sorpassava la logica matematica. Uno portava l’altro oltre i limiti e viceversa: entravano entrambi nella zona. La sfida di quella notte di tarda estate diventerà l’esempio più alto.

Agassi partì fortissimo e Sampras dovette adattarsi. L’aspetto più sorprendente della partita, rivedendola anche a tre lustri di distanza, fu la qualità elevatissima, a dispetto del ritmo frenetico. Andre e Pete salirono di livello e rimasero lassù per più di tre ore. Il tempo, gli angoli, la linea di fondo, appartenevano a Flipper; le variazioni e la rete a Pistol Pete: seguendo il movimento di un immaginario pendolo, a ogni scambio, uno mangiava il cemento dell’altro.  Fu una volée di rovescio sbagliata, nemmeno difficile per le usanze del greco nato nel Maryland, a consegnare il primo parziale al kid di Las Vegas. Si era e si arriverà solamente (..) al tie-break, suggello di un equilibrio totale, straniante. Sampras sembrò vulnerabile nel secondo set, ma si difese da leone nei momenti cruciali. La sua prima di servizio calò da un incredibile settanta per cento al quarantasette: Pete, in pericolo, si difese attaccando. E fu ancora una volée di rovescio, stavolta vincente, estratta dalla pancia su un passante pesantissimo di Andreino, a siglare la parità. Agassi, all’Open americano, dopo essersi imposto nel primo set, si era aggiudicato quarantanove dei precedenti cinquanta incontri. Contro Sampras la storia, non solo statistica, mutò.


Il celebre servizio di Pete Sampras, il più devastante dell’evo moderno.

2002, Foro Italico, Roma. Andre Agassi provò le corde monofilamento sulla sua Head. Trenta minuti di pallate e una sentenza: “Troppo facile colpire. Dovrebbero abolirle.” Chissà cosa accadrebbe oggi, a rimettere quei due in campo nel tennis contemporaneo, tra luxilon e omologazione delle superfici e degli stili. Molto probabilmente, in un gioco più standardizzato e meno veloce, i rapporti di forza si invertirebbero. Sulla terba nì, sull’hard court di sicuro.

Nell’incontro perfetto, quattro parziali senza break, tutti e due servirono ventiquattro volte: Sampras estese il bordone, cominciato nel secondo turno, di settantadue turni di servizio consecutivi senza perderlo. Una palla break, nel quarto, Pistol Pete la annullò con un ace di seconda: a 190 chilometri orari sulla riga. La chiave tecnica della partita?


Andreino Agassi, in allungo, col suo rovescio bimane: nessuno, con quelle racchette, anticipava i colpi come Flipper.

Il rovescio del greco, solitamente discontinuo, quella sera produsse meraviglie.  Agassi, straordinario nella pressione da dietro, commise solo diciannove errori non forzati, otto dei quali però nei tie-break. Quelli nel quarto spostarono – definitivamente – l’inerzia: avanti 3/1 e battuta, Flipper affossò un diritto (facile: per lui) in rete. Sotto 3/5, sbagliò un backhand, semplice, al volo. La conclusione, su un altro errore di diritto di Agassi, consegnò il duello alla storia del tennis. Per la cronaca: 6/7 (7/9) 7/6 (2) 7/6 (2) 7/6 (5). Il boato della folla all’Arthur Ashe Stadium si riverberò negli ascolti televisivi: la media di case collegate negli States (3,42 milioni) divenne la più alta di sempre registrata. Sampras, in finale, si sarebbe arreso al robotennis di Lleyton Hewitt e al supersaturday – nelle gambe.. – del dì prima. Il Viale del Tramonto, che sembrava patetico, fu dolcissimo: l’anno seguente, a sorpresa ma non troppo, proprio contro Andreino, si prese il suo quinto US Open e chiuse lì. Agassi, nel 2003, in Australia, avrebbe conquistato l’ottavo e ultimo major della carriera. L’ultimissimo acuto Slam, trentacinquenne, ancora in quel di Flushing Meadows (2005) in finale contro Roger Federer, quando perse con l’onore delle armi.


Pistol Pete, invertendo l’inerzia delle ultime sfide, vincerà anche le due partite conclusive. Nel 2002, a Houston e la finalissima agli US Open

Nei quattordici anni di rivalità tra i pro, il rendez vous agli US Open 2001 fu la loro contesa più lunga per durata (3 ore e 32 minuti), punti (338) e giochi (52). I due combinarono per 135 vincenti, 43 aces (il dato di Agassi – 18 – rappresentò il migliore negli head to head contro Sampras). Di tutte le cifre ricavate dall’incontro, il 96 su 137 di Pistol Pete nelle discese a rete – opposto a Flipper! – ha qualcosa di inspiegabile. Le statistiche, accuratissime, non spiegano l’andamento quasi soprannaturale della sfida. Una sensazione che si ebbe allora, in diretta, e che non viene scalfita dopo l’ennesima visione.

Il 6 Settembre 2001, a New York, si giocò la partita più importante di sempre. Il martedì seguente la fine del torneo, due aerei di linea dirottati da un gruppo, prevalentemente saudita, si schiantarono contro il World Trade Center. L’immagine delle Twin Towers in fumo, che crollano, delle persone rinchiuse là dentro arse vive o che si tuffano dalle finestre, segnerà la psiche collettiva del mondo. Il terrorismo, da fenomeno locale – analogico, totalizzante ma lontano dagli occhi – divenne globale, digitale e virulento. L’11 Settembre 2001, nella Grande Mela, cominciò il ventunesimo secolo.


La mattina dell’11 settembre 2001, a New York, comincia il ventunesimo secolo.

Pubblicato da Il Giornale del Popolo il 6 Settembre 2016