TIM DUNCAN, IL BUDDA DELLA PALLACANESTRO

Distratti da una causa di forza maggiore, ha avuto un sapore agrodolce l’annuncio della classe 2020 introdotta nella Hall of Fame di Springfield.

La festa, ancora più mesta dopo la tragedia di Calabasas dello scorso 26 gennaio, dovrebbe tenersi nel fine settimana tra il 28 e il 30 agosto prossimi.

Il condizionale, in tempi di covid-19, è obbligatorio.

Hall of Fame svalutata – negli ultimi anni – da criteri di scelta più generosi, e dalla mondializzazione a tutti i costi, ma stavolta quei tre nomi rilanciano il senso (nobile) della casa della gloria.

Perché, in ordine di entrata temporale nell’NBA, Kevin Garnett, Kobe Bryant e Tim Duncan sono stati i giocatori più rappresentativi, iconici (ognuno a modo suo), della palla con estro post jordanismo.

I traghettatori più degni, per qualità e quantità, di una Sternville che, in pieno boom finanziario e mediatico, si trovò a gestire la sbornia da successo con retroazioni non sempre scontate.

Kevin, Kobe e Tim, i capintesta generazionali di una realtà, globalizzata, esposta (dunque venduta…) finalmente (..) ventiquattro ore al giorno.

Con il procedere degli anni Novanta, termina il mistero del talento; o meglio, l’interesse provocato dallo sport pro fece sì che i campioni del futuro, le promesse, per la prima volta crescessero sovraesposti in pubblico.

KG aveva ventun anni, quando prolungò per i (suoi) Minnesota Timberwolves, accettando 126 milioni di dollari per sei anni di contratto: era il primo ottobre 1997 e quella firma avvicinò la lega alla serrata di fine estate ’98.

Lo vedemmo sulla CNN, al tiggì sportivo, Kobe Bryant (diciassettenne, liceale) celebrare l’endorsement commerciale con Adidas.

E sapevamo tutto dell’anabasi di Duncan, da Saint Croix, le Isole Vergini americane, allo status di All-American all’unanimità: in mezzo, il sogno di una medaglia olimpica nel nuoto, la morte della madre Ione, il passaggio dell’uragano Hugo (che distrusse la piscina) e il reclutamento quasi fortunoso di Dave Odom per i Demon Deacons.

La loro letteratura era già sterminata: prima che diventassero The Big Fundamental, Black Mamba e The Big Ticket.

E’ il caso allora di indugiare sul caraibico, per smontare molti luoghi comuni.

A cominciare dall’assunto che il college e un percorso netto liceale siano sempre una garanzia: difficile trovare due con la valigia dei trucchi, del mestiere, più colma di Bryant e Garnett, o più studenti (studiosi) del gioco.

Eppure entrambi il torneo NCAA l’hanno visto solo in tivù.

E Duncan, fino ai sedici anni, di basket organizzato ne ha vissuto poco.

Primavera 1997, con i giochi ancora in corso erano due le certezze (incrollabili) dell’NBA: il bis dei Chicago Bulls (il quinto anello in sette anni) e la primissima scelta del draft.

Dicevamo che quel Tim Duncan, male che andasse, era un Brad Daugherty: cioè un lungo educatissimo tecnicamente, con il potenziale da All Star.

Il resto, nel Purgatorio delle squadre perdenti, non fu mancia bensì tanking: per assicurarsi il 21 di Wake Forest, alcune squadre sbracarono.

Su tutte, la più probabile nella casistica della lotteria (col 36 per cento di possibilità), i Boston Celtics: M. L. Carr, allenatore e giemme, assicuratosi i servigi di Rick Pitino per la stagione successiva, decise di perdere.

E perse, compilando un 15-67 che venne accolto a mo’ di auspicio: ogni elle, si scrisse, avvicinava i verdi a Tim.

Non che il 20-62 dei San Antonio Spurs fosse diverso: fu deciso (..) dopo l’infortunio al giocatore franchigia, David Robinson.

L’executive Gregg Popovich disarcionò dalla panca Bob Hill e divenne pure l’allenatore capo.

5 marzo ’97, la DSF scodellò una visita a domicilio – di culto – degli Speroni a casa Bulls.

Un’esegesi delle partite così così di stagione regolare: quel poco di partita, vide l’uno contro uno (improbabile, cinico) tra Monty Williams (meno 35 il plus/minus quella sera) e Scottie Pippen (che se lo mangiò…) e uno sketch di Michael Jordan durante il (lungo) garbage time (si divertì a tirare cubetti di ghiaccio a compagni e staff).

Finì 69 a 111 e se Chicago l’avesse giocata sul serio – opposta ai Carl Herrera, Vinny Del Negro, Greg Anderson… – sotto i settanta punti di scarto non saremmo scesi.

Quei mesi di calvario cestistico ebbero, nella serata del 25 giugno, a Charlotte, il premio agognato: una botta di fortuna senza pari, per San Antonio, la stretta di mano rituale tra David Stern e Tim col cappello Spurs appena indossato.

In quel momento, cominciava un’epoca.

Le impressioni di Winston-Salem, in Texas divennero certezze.

Il Duncan matricola sfolgorava per la velocità di esecuzione, soprattutto in post, e di pensiero.

Visto da vicino, all’Open milanese del 1999, impressionavano la velocità dei piedi e la coordinazione, anche partendo fronte a canestro da cinque metri: un atleta straordinario, un’ala piccola per reattività muscolare.

Mani fortissime, gli istinti giusti per il rimbalzo (e il tagliafuori), il bumping, le malizie; il giro e tiro alla tabella, magistrale, il semigancio tagliando verso il ferro, il tempismo nel piazzare il blocco.

Un manuale del lungo moderno prima dell’estremizzazione dello stretch four e del pick and pop.

Difensivamente, uno stoppatore di altissimo lignaggio, fece bingo (per l’evoluzione della sua carriera) affiancandosi a David Robinson.

Che era un simposio tattico nell’aiuto, nel timing, nelle scelte.

Il caraibico assorbì tutto, come una spugna, parve pronto (subito).

Lo osservammo ammirati nel test più importante per un’ala forte dell’evo: una partita contro Karl Malone, il mammasantissima che ti segnava un trentello in faccia, segnandoti anche il corpo, di ecchimosi e di ematomi.

Senza l’Ammiraglio, quel dì in borghese, non fece un passo indietro: il cosiddetto statement game, sporco e cattivo, andò agli Utah Jazz di un’incollatura (79-77), ma all’Alamodome si capì che Duncan era fatto di materiale speciale.

A ogni gomitata, provocazione, il 21 rispondeva – la mimica di Buster Keaton – con il suo basket: per limitarlo (29 punti e 15 rimbalzi a referto), il Postino ebbe bisogno di raddoppi (quasi) sistematici.

Non fu una sorpresa, nel ’99 del dopo lockout, assistere – con la stagione che avanzava – al cambio della guardia.

Tim, a marzo, era già il migliore (quattro) dell’NBA: avrebbe portato i neroargento alla terra promessa, attraverso le fiamme del miracolo (di Sean Elliott) del Memorial Day, spazzando via – lungo il cammino – i Lakers pre Phil Jackson e, alle Finals, un combo in missione come i Knicks di Allan Houston e Latrell Sprewell.

Lo scrivemmo senza troppi indugi: era il Kareem Abdul-Jabbar delle power forward.

Duncan continuò l’evoluzione, accompagnando gli Spurs dalle Torri Gemelle alla Pop band, gioiosa macchina da canestri (e difensiva) con un personale rinnovato: Manu Ginobili e Tony Parker, lo yin e lo yang di quel metodo dinastico, a coadiuvarlo.

Anche nei rovesci, le scoppole prese dal Ko-shaq e Sacto, le Olimpiadi ateniesi sulla nave che imbarcava acqua (Allen Iverson e Stephon Marbury come play…), The Big Fundamental crebbe.

L’apice individuale, in un gioco di dinamiche collettive, dalle parti del 2002-2006: un two-way che dominava in difesa, con gli aiuti (o la finta diabolica degli stessi), che stoppava, rovinava, i tiri avversari e cambiava, nell’azione singola, sulle guardie, accompagnandole verso il corridoio sfavorevole.

Sempre più bravo nel leggere i tagli dei compagni, i raddoppi altrui, e a gestire la partita con e senza palla: abbiamo perso il conto dei canestri della staffa, della giocate decisive, nel clutch.

Una quadrupla doppia (mai riconosciuta dall’ufficio statistico di New York: 21 punti, 20 rimbalzi, 10 assist, 10 stoppate) contro i New Jersey Nets (e Kenyon Martin), nella Gara6 decisiva delle Finali 2003, il simulacro della sua pallacanestro totale.

Una fascite plantare, il ginocchio sinistro usurato che gli regalerà – negli ultimi anni – una zoppìa sempre più evidente: il declino dei grandissimi, proprio perchè tali, non è mai uguale agli altri.

Il Duncan maturo esaltò e permise la cultura (vincente: anche se uscivano al primo turno dei playoffs…) di un’organizzazione.

Col fisico non più al cento per cento, il caraibico fu sempre meglio nei particolari che stabilivano l’inerzia di un incontro, di una serie, di un ciclo.

I New England Patriots dell’NBA – il parallelo del rapporto Duncan-Popovich con quello tra Tom Brady e Bill Belichick è d’uopo – sublimarono la propria fama sul viale del tramonto.

Le Finals 2013, con Tim che – nella leggendaria Gara6 – ne fece 25 nel primo tempo, opposto ai Miami Heat dei Big Three.

Quel semigancio sbagliato, che lo porterà ad abbandonare (per la prima e ultima volta) la maschera d’imperturbabilità, e la rivincita, dodici mesi dopo, con l’armata texana che mise su un clinic del “Good To Great”.

Il momentum però avvenne nella finale occidentale, nel supplementare della Gara6 contro gli Oklahoma City Thunder strapotenti di Kevin Durant e Russell Westbrook: furono i suoi sette punti di fila, malgrado la pressione addosso e le sportellate di Serge Ibaka, non l’ultimo della pista, a ricondurre i neroargento alla terra promessa.

Erano passati tre lustri, una vita, dal prologo (Gara5) al Madison Square Garden nel 1999: tutto era cambiato, il mondo intero attorno, tranne il Budda di pietra col numero 21.

Aveva appena compiuto 39 anni quando, in un derby di Wake Forest (tra lui e Chris Paul) ambientato fra Spurs e Clippers, mise assieme una sequenza clamorosa di partite in post season.

A quelle altezze, con quel chilometraggio, Kareem e basta.

E ci fanno ridere i malati di wikipedismo, che si dimenticano di citarlo nella lista del più grande di sempre.

Una discussione senza senso comunque, soprattutto se non si include il caraibico.

Colpevole (..) di essere stato il Pete Sampras della palla a spicchi: un esempio straordinario di essenzialità produttiva, tecnica e agonistica. Zero fronzoli, cinque anelli.