L’EREDITA’ DI TOMMEKE

Un’immagine su Instagram, postata la scorsa settimana, ha inaugurato la nuova vita di Tom Boonen.

Ostaggio divertito delle figlie, le gemelline Valentine e Jacqueline, uno dei più grandi classicomani di sempre ha finito col ciclismo agonistico.

Una carriera terminata lo scorso 9 aprile nel velodromo di Roubaix, che è anche un pò suo, concludendo al tredicesimo posto l’ennesima Parigi-Roubaix corsa da flahute di razza: in testa al plotone, a prendere il vento e la polvere in faccia.

Non sappiamo se Tom Boonen sia stato il campione più rappresentativo della sua generazione.

Di sicuro, in un ciclismo quasi sempre diviso, spaccato in due filosofie parallele (tappisti e classicomani), Boonen è stato riconosciuto mammasantissima da tutti.

Classe 1980, ebbe pochissimo tempo per maturare.

Apparve subito, atteso ma non troppo, alla Parigi-Roubaix 2002.

Un Inferno di fango, sconcio, nel quale l’enfant prodige di Mol si dimostrò – matricola – a suo agio.

Correva per George Hincapie quel pomeriggio, ma si ritrovò in fuga per anticipare i ras e – una volta raggiunto – rimase con loro.

Chiuse terzo, a ventuno anni e mezzo, appena dietro Stefan Wesemann (secondo) nell’ultima Rubè vinta, anzi stravinta, da Johan Museeuw.

La fotografia sul podio, uno accanto all’altro, ritrasse il Leone delle Fiandre degli anni Novanta con il suo unico erede. 

Tommeke, il futuro fiammingo, divenne il presente in fretta: due anni dopo, già sedici vittorie stagionali.

Gand-Wevelgem, Harelbeke e tre tappe al Tour de France nella sequenza.

Reclutato tra i pro da Johann Bruyneel, uno degli Uomini Neri della US Postal, fece tombola accettando immediatamente – nel 2003 – la proposta di Patrick Lefevere.

Il diesse degli anni dorati di Museeuw fu il manager dello squadrone di Boonen: in ogni senso, una scelta baciata dalle stelle.

Nel 2005, Tommeke divenne grande: doppietta Ronde-Roubaix e campione mondiale a Madrid.

Sarebbe interessante paragonare lui e Fabian Cancellara: i migliori uomini da pavè e muri della nidiata nata all’incipit degli anni Ottanta, senza alcun dubbio, e nella lista (ristretta) dei più rappresentativi di ogni epoca.

Per risolvere il confronto, useremmo una definizione coniata da Gianpaolo Ormezzano su Coppi e Merckx: più forte lo svizzero, più grande il belga.

Spartacus, per indole, stile di corsa e caratteristiche tecniche, ha quasi sempre gareggiato contro il mondo intero.

Il duello sul Muur alla Ronde 2010, quando staccò di forza il rivale e si involò al traguardo, rimane il quadro perfetto di un atleta che, quando era al cento per cento, ha esibito un motore con pochi eguali nel ciclismo moderno.

Tommeke, pure lui generoso e strapotente, ha invece saputo correre meglio nelle pieghe della gara, supportato da un gruppo (costruito appunto da Lefevere, la Quick-Step anche Omega Pharma o Etixx) fortissimo.

Boonen è diventato Boonen malgrado il peso della storia della sua terra, le Fiandre, e un’eredità impossibile.

L’identità di corridori che avevano e hanno nel dna la competizione più dura ed estrema, nelle corse più belle e affascinanti.

Nemmeno le maledizioni di Roger De Vlaeminck, uno troppo simile a Tom per non invidiarne il successo e la giovinezza, l’hanno fermato.

Ai duellanti, nel computo puramente statistico, manca qualcosa del rivale.

A Fabian un titolo iridato su strada, forse quello casalingo di Mendrisio che andò a Cadel Evans (2009).

A Tom invece una Milano-Sanremo, anticipato da un compagno nel 2006 (Pippo Pozzato) o dai riflessi felini di Oscar Freire nel 2010.

Il paragone col terzo uomo del lotto, Philippe Gilbert, altro fuoriclasse del livello di Spartacus e Tommeke, prenderebbe altre strade: dovrebbe introdurci alla questione, secolare, tra Fiandre e Vallonia.

In effetti Gilbert, più completo del dinamico duo, ha affrontato Boonen meno frequentemente di Cancellara.

Perchè più specialista delle cote e delle classiche con dislivelli accentuati.

Faceva impressione, tre settimane orsono, vederli compagni di squadra alla Ronde: nel tentativo, folle ma riuscito, di sorprendere Greg Van Avermaet e Peter Sagan c’era tutta la cazzimma vincente di Boonen e Gilbert.

Amarcord, lo sprint iridato (nel 2005) in Spagna, quando il telecronista del canale nazionale francofono (RTBF) Rodrigo Beenkens scambiò Tom per Philippe.

Un riflesso condizionato che rivelava il sentire opposto di due popoli distinti.

Boonen fiammingo nella carne e nelle ossa, Gilbert vallone che si è sempre dichiarato orgoglioso di essere belga.

Entrambi intelligenti a non sottolineare le idiosincrasie di una nazione spaccata – culturalmente – a metà.

L’apogeo di Tommeke risale al 2012, ormai veterano e con due lustri di battaglie nella gerla.

Prima Harelbeke (quinta affermazione, un primato) e Gand-Wevelgem, poi Giro delle Fiandre e Parigi-Roubaix: un filotto clamoroso. 

Si impose di giustezza, sugli italiani Pozzato e Ballan, alla Ronde: più mestiere che gamba.

Travolse invece la concorrenza, la domenica seguente verso Roubaix: se ne andò via a un passo dal settore di Auchy les Orchies, a cinquantacinque chilometri dal traguardo, in coppia col coéquipier Niki Terpstra.

Un rettilineo di acciottolato e rimase da solo: non si voltò più, a pieno gas fino al velodromo.

Lo zenit popolare di un corridore belga dai tempi di Eddy Merckx, più amato di Museeuw (che era un campione ma non un personaggio) e di Eric Vanderaerden (che era un personaggio ma smise presto di essere un campione).

L’ubriacatura di essere Tommeke, un’icona pop, è stata difficile da smaltire.

La gestione faticosa di chi – giovanissimo – crebbe in pubblico e visse le ombre, nel biennio 2008-09, della vida loca e del flirt con la cocaina e l’alcol.

Ha avuto la fortuna di essere circondato da un (piccolo) gruppo di amici, fedeli, capintesta l’eterna fidanzata Lore, la mamma delle gemelle.

Prospettive differenti da quelle, tristi e rovinose, di un Frank Vandenbroucke o di un Marco Pantani.

Esiliatosi a Monte Carlo, nel paradiso fiscale degli assi, tornò sui suoi passi pagando una multa salta col fisco belga.

A Balen, nel cuore delle Fiandre, la casa dei suoi (nuovi) sogni.

Tom Boonen, il ciclista, incarna lo stereotipo psicofisico del velocista resistente.

Uno sprinter che, pur vincendo le volate di gruppo, piano piano si trasformò in un passista veloce che emerse, al meglio delle sue doti, oltre i duecento chilometri.

Rouleur, ballerino delle pietre, un mix (raro) di potenza e di agilità, esaltato dalle doti tecniche di guida del mezzo e dagli istinti tattici (aggressivi, da maschio alfa).

L’uomo senza guantini, debordante e scaltro, è riuscito a essere se stesso anche negli ultimi anni di sfide.

Un viale del tramonto orgoglioso, ancora in prima linea, col rimpianto della (quinta) Rubè persa per un eccesso di impeto.

Era il 2016 e nel velodromo sottovalutò un vecchio lupo di mare come Mathew Hayman.

Cinque mesi dopo chiuse terzo al Mondiale di Doha, dietro Sagan e Marc Cavendish, a dodici anni dall’oro di Madrid: un sigillo che ne racconta la longevità e la classe.

L’eredità di Boonen è inscindibile da quella fiamminga e belga.

Il movimento tradizionale oggi più in salute e con un avvenire certo.

L’università del ciclismo, un coacervo di passione e soldi, di corse disputate sul porfido, sgomitando, nei ventagli e nella pioggia.

Flahute cresciuti col mito della lotta gladiatoria, della selezione darwiniana, e con la cultura onnivora delle classiche, dei giri, del ciclocross, della pista, delle kermesse, etc.

Non è un caso che quell’universo (bonsai) abbia generato Tom Boonen: più difficile comprendere perchè altri paesi non riescano a imitare, almeno in parte, un bordone così efficace.

Pubblicato da Il Giornale del Popolo il 22 aprile 2017