LA RONDE. IL SENSO DEI BELGI PER IL CICLISMO

La domenica prima della Pasqua, il 2 aprile, ci introduce all’altra settimana santa, quella del ciclismo.
L’uno-due Giro delle Fiandre e Parigi-Roubaix è lo zenit ideologico di tutto il movimento.
La Ronde poi, nel bel mezzo della campagna del Nord, a mò di simbolo identitario di una terra, le Fiandre, e di una nazione (il Belgio) che ingloba due mondi paralleli, talvolta ostili.

CARTOLINE DAL BELGIO

Bruges (Brugge..), Gand (Gent..), Harelbeke, Charleroi, Liegi, Lovanio.
Le piazze colme alla partenza delle gare raccontano, meglio di un’analisi sociologica, il senso del ciclismo (e della vita) per i belgi.
Un’idea, totalizzante, della corsa ciclistica come metafora e sentimento collettivo.
Il Belgio, oggi più che ieri, sempre più centro di gravità permanente e aleph di questo sport: a dispetto del marketing globale, dei soli undici milioni di abitanti, delle contrapposizioni culturali e politiche.
File di appassionati, dalle pantere grigie ai ragazzini, competenti, che riconoscono uno a uno i corridori, non solo i grandi campioni, con la cartolina o la foto pronta per l’autografo.
Una passione fanatica che si riverbera nella produzione, costante, di atleti, una genia a sé, nati pronti.
Non ci si può esimere dalla fortunata definizione di flahute, espressione gergale francese che descrive (va) i veltri belgi, fiamminghi soprattutto, negli anni Quaranta: Briek Schotte, per esempio.
Corridori, ex contadini o ex minatori, figli di una concezione darwiniana dell’agonismo e dei luoghi.
Le stradine agricole, la polvere e il fango, l’acciottolato, i muri, i marciapiedi e i binari dei tram negli attraversamenti cittadini, i ventagli.
Un paesaggio caratteristico, iperrealista, duro, tra campagne e città, antico e moderno, non può che generare – per osmosi – i Rik Van Looy e i Roger De Vlaeminck.
Archetipi di ciclisti con il coltello sotto la sella, funamboli, generosi e spietati, pirateschi.
Il belga scende in strada e partecipa, si identifica, con i Wout Van Aert, che usano le avversità come ostacoli, tra miniere chiuse e tetti aguzzi al pari di guglie: un’ipnosi sulla corsa, su quell’attimo, che rimanda a una considerazione (al solito, geniale) di Charles Baudelaire.
“Bruxelles? Molti balconi. Ma nessuno al balcone (..). Del resto, che cosa potrebbero guardare in strada?”
La risposta, un secolo e mezzo dopo, è: una qualsiasi gara di biciclette.

PANEM ET CIRCENSES, EDDY, LA POLITICA, FIANDRE E VALLONIA

La Ronde, summa teosofica di tutto ciò, prospera felice e dinamica.
Dal 2012, cercando le svanziche (tante), si concludeva in quel di Oudenaarde: un arrivo logisticamente perfetto ma anonimo.
In compenso, col doppio passaggio sul Vecchio Kwaremont e il Paterberg, il Fiandre è diventato ancor più selettivo e impietoso.
Panem et circenses, le tribune naturali di quei muri permettono di ricavare più soldi dalla festa.
Migliaia di persone, appollaiate come pellerossa in agguato, che attendono il gruppo (o meglio, quel che ne rimane) e bevono (fiumi di birra), mangiano, scommettono e pisciano.
Un appuntamento tribale, per una terra, paragonabile in Europa solamente forse con la Streif – a gennaio – per lo sci alpino, il Tirolo e l’Austria.
Sembra un disegno della sorte che il più forte di sempre, Eddy Merckx, malgrado fosse fiammingo, crebbe (per qualche anno) cittadino di Bruxelles, nel quartiere di Woluwe Saint Pierre.
Merckx dunque, simbolo di un Belgio intero, al di là dei campanilismi e delle divisioni.
La storia stessa del Giro delle Fiandre, che mai sospese la competizione negli anni dell’occupazione tedesca durante la seconda guerra mondiale, racconta l’ambiguità (collaborazionista) di quel periodo.
L’Omloop Het Volk, concepita nel 1945, organizzata da un giornale socialista, nacque per reazione.
Oggi, quel contrasto politico e sociale è stato cancellato, o messo dietro le quinte, dalla portata nazionalpopolare dell’evento Ronde.
Esemplare la gestione mediatica dell’evo di Tom Boonen e Philippe Gilbert, stereotipi contemporanei del fiammingo e del vallone.
Tommeke, un’icona, ballerino strapotente delle pietre, e Phil, l’emblema della versatilità fra i classicomani: entrambi fenomeni, ma a loro agio in categorie differenti e poche volte sovrapponibili in una stagione, e saggi nell’assopire una rivalità dai contorni scissionisti.

FLAHUTE E GUTTALAX

Il pavè e i muri di lassù, non solo per gli indigeni, sono l’università del ciclismo.
Il corridore professionista diventa adulto sgomitando, tra una curva e una strettoia, limando nel plotone, esercitandosi nei trucchi (anche i più inconfessabili e truci) per rimanere davanti, nel cuore dell’azione.
Flahute ad honorem, forestieri, sono stati pochi.
Tre, nell’ultimo mezzo secolo, si staccano dagli altri: Francesco Moser, Sean Kelly e Fabian Cancellara.
E non è contraddittorio che i primi due, lo sceriffo di Palù e il rosso irlandese, non siano mai riusciti a vincere il Fiandre, una maledizione che rinnova il fascino perverso di quello scenario.
Nel 1980 l’italiano sbriciolò la concorrenza sul caro, vecchio, Geraardsberger, il Muur per eccellenza.
Nel momentum, solo Jan Raas e Michel Pollentier riuscirono a stargli in scia.
Il finale, shakespeariano nell’anima, vide l’allora campione del mondo, lo zelandese Raas, scommettere sulle gambe del terzo incomodo, l’outsider: preferì la vittoria di Pollo, pedalatore (di) sgraziato quanto efficace, al trionfo dell’irresistibile Moser.
Pollentier, a un passo dal traguardo di Meerbeke, ci provò due volte: l’ultimo scatto, telefonato, a settecento metri dall’arrivo, colse Moser spazientito dalla marcatura a uomo del succhiaruote Raas.
Fu una beffa: primo Pollentier, secondo Moser, terzo Raas.
Il politicamente corretto non è mai stato nelle regole dei flahute, e se adesso marchi, radioline e tattiche normalizzano la contesa, c’erano tempi nei quali l’agguato era la prassi.
Un bel manifesto della ferocia, dell’odio competitivo, tra fiamminghi, divenne un episodio laterale (?) al Mondiale di Montreal (1974).
Merckx strafavorito, che poi vinse, aveva come luogotenente il rampante (e fortissimo) Freddy Maertens.
Che a metà gara era là davanti, in fuga con Bernard Thévenet e Tino Conti: Gust Naessens, il massaggiatore del Cannibale, gli passò il rifornimento.
Nella borraccia, l’acqua era stata arricchita (..) da uno spruzzo di lassativo, così che, quando Merckx si sbranò i francesi e il terzo titolo iridato pro, Maertens – ritiratosi – scontasse una dissenteria (punitiva).
Le regole non scritte, ma tramandate, del flahute valgono e valevano ovunque: anche nel lontano Québec.
Fino ad arrivare al patto siglato dall’avvocato (sigh) tra Maertens e Roger De Vlaeminck.
Che non ne potevano più di farsi la guerra.
Così nel 1977, alla Ronde, una sceneggiata: i due seguirono (il vecchio) Merckx sull’Oude Kwaremont.
Eddy rimbalzò, sul Koppenberg Maertens cambiò la bici non dall’ammiraglia, ma sulla strada.
In corsa qualcuno lo avvisò che l’avrebbero squalificato.
Allora il campione del mondo fece da frangivento, pesce pilota, per De Vlaeminck: lo scortò fino al traguardo, lasciando a Roger l’onere (più che l’onore) dello sprint (simulato).
Maertens quel pomeriggio andava il doppio, l’avrebbe vinta facilmente: non si imporrà mai nel Giro delle Fiandre.

IL FIANDRE IN RETROMARCIA

Se chiedete ai corridori del World Tour, in questi anni, quale sia la gara più bella, la maggioranza vi risponderà Ronde.
Per la milionata di spettatori sulle strade, le difficoltà tecniche, l’atmosfera e le stradine (stradacce) uniche.
Nel 1950, Fiorenzo Magni edificò la sua fama (immortale) di campione, realizzando il bis (in attesa del tris): era arrivato in treno, come negli anni precedenti, il solo forestiero dall’Italia – un precursore – a farlo.
Fecero il Muur per la primissima volta nella storia: lo scollinarono in testa, lui e il solito Briek Schotte, che staccò nella discesa prima di involarsi al traguardo.
Quel pomeriggio, Magni divenne il Leone delle Fiandre, un flahute nato per errore (..) in Toscana, fuori dai confini del Belgio e dei Paesi Bassi.
Nelle stesse ore, era il 2 aprile anche quella volta, al Giro della Provincia di Reggio Calabria (corsa internazionale per l’UCI), Fausto Coppi fece un numero dei suoi.
Partì, sotto la pioggia, sul Sant’Elia e realizzò 48 chilometri di fuga (solitaria) vincente.
Primo Coppi, secondo Gino Bartali a 4’40”.
La settimana dopo, il Campionissimo si presentò alla Parigi-Roubaix e i reduci della Ronde furono spazzati via, compreso (un ottimo) Magni (terzo a 5’24”).
Per farla breve, in barba alla narrazione dei (cinque) monumenti, nel ’50 una gara del calendario italiano valeva quanto il Giro delle Fiandre.
Forse di più.
In settant’anni sono accadute tante cose..

Basti pensare al testa a testa lunare, senza folla (si era in piena emergenza covid), del 2020 tra i due Van.
Alla magata Quickstep nel 2017, quando Tom Boonen (37enne, uno degli eroi moderni delle classiche dei muri e del pavè) promosse una fuga a lunga gittata – con 14 corridori – per anticipare i favoriti.
Philippe Gilbert, a più di 50 chilometri dall’arrivo, iniziò l’assolo decisivo sull’Oude Kwaremont.
All’ultimo passaggio sul Vecchio Kwaremont, una caduta coinvolse Peter Sagan, Greg Van Avermaet e Oliver Naesen.
Van Avermaet, tallonato dallo stopper Quickstep Niki Terpstra, rimontò di forza fino a meno di mezzo minuto da Phil.
Che divenne il secondo vallone di sempre, dopo Claude Criquelion nel 1987, ad aggiudicarsi la Ronde.
Nel 1999, una parata di semidei di casa.
A Meerbeke, sul rettilineo finale, si presentarono Peter Van Petegem, Frank Vandenbroucke e Johan Museeuw.
Quella sera si scrisse e si disse che erano il presente (Van Petegem), il futuro (Vandenbroucke) e il passato (Museeuw) del ciclismo belga.
Si impose allo sprint Van Petegem, ma il romanzo del fenomenale Vandenbroucke sarebbe diventato un noir, una vicenda esemplare degli anni maledetti di Epolandia.
C’era Museeuw là davanti, favoritissimo, anche nel 1994: il più amato dai fiamminghi, Johan.
Dal Bosberg rimasero lui, Franco Ballerini, Andrei Tchmil e Gianni Bugno.
Tre classicomani, specialisti dell’acciottolato, più un enigma travestito da fuoriclasse.
Che il Bugno fosse davanti, lui che odiava fare a sportellate nel gruppo, fu solo un segnale del talento (inesplorato a pieno..) del monzese.
La volata fu lanciata ai 350 metri dal potentissimo Bugno che, incurante del ritorno (disperato) di Museeuw, alzò le mani un po’ troppo presto.
Ci vollero dieci minuti di photo-finish per stabilire il successo dell’italiano: di mezzo pneumatico.
Bugno non avrebbe mai più alzato le mani in uno sprint, Museeuw aveva chiamato Gianni – in suo onore – il primogenito.

A ricordarla in retromarcia, ci si rende conto quanto la Ronde sia pericolosa.
Nel 2014, Johann Vansummeren (uno che vinse la Parigi-Roubaix) investì una spettatrice su uno spartitraffico, non segnalato, nel caos di un attraversamento cittadino.
La donna, Marie Claire, dopo una settimana di coma farmacologico perse l’uso delle gambe.
Se torniamo al 1985, un’edizione flagellata da un freddo cane, la pioggia battente, il nevischio: usando le parole di Rik Vanwalleghem, le Fiandre sembravano la Siberia.
Sul Koppenberg – a 70 chilometri da Meerbeke – la scena maestra: i corridori, sul pavé gelido e bagnato, che cascavano come birilli ed Eric Vanderaerden, il capitano della Panasonic, che recuperava da una foratura venendo su a spinte, lanci simil americana.
Rimasero in corsa, in piedi, quattro gatti e il lupo di mare più esperto, il vecchio Hennie Kuiper, tentò il contropiede per il bis dell’81.
Vanderaerden e Phil Anderson, corazzieri di Peter Post, raggiunsero l’olandese ai piedi del Muur, in cima Vanderaerden salutò la compagnia.
Primo Eric, secondo Anderson, terzo Kuiper.
Arrivarono in 24, congelati.
Vanderaerden, 23 anni, allora campione belga e più giovane vincitore della Ronde dal dopoguerra, ebbe una carriera fulminante ma declinò presto.
Un film visto spesso nelle Fiandre: la terra dove un ciclista è più importante di un calciatore.

LA RONDE 2023

Ronde 2023 dal canovaccio abbastanza chiaro: la Jumbo-Visma contro tutti, tutti contro i tre mostri (Tadej Pogacar e i due Van ciclocrossisti e flahute).
I calabroni non sembrano limitabili, tranne che dalle sfortune.
Uno squadrone che vanterebbe come vice Dylan van Baarle (dopo la caduta alla Wevelgem non ci sarà), che alla Het Nieuwsblad aveva seminato il gruppo stile Cancellara, e rouler del calibro di Christopher Laporte, Nathan Van Hooydonck, Tiesj Benoot, Edoardo Affini.
Niente male la pressione sulle spalle del supereroe (fiammingo) Wout, alla ricerca di un Fiandre che sarebbe un momento iconico.
Per Van Aert stesso, che soffre l’istinto piranha dell’eterno rivale Mathieu van der Poel, e per una nazione che ne adora i superpoteri.
Il sogno bagnato è rivedere il film di Harelbeke: 80 chilometri di fuoco e fiamme tra i Van e Pogacar (gli altri dispersi..).
Lo sloveno potrebbe essere la chiave del confronto: sul Paterberg, all’E3 Saxo Classic, con un colpo di pedale spaventoso (per la concorrenza..), ha tirato il collo a quei due.
L’anno scorso Pogacar capì, sull’Oude Kwaremont, di poterla vincere, forse, in un pomeriggio perfetto.
Spaierà le carte Jumbo e Alpecin, di sicuro.
In un’epoca di freak, il contorno (sigh) è adeguato: le leve potenti di Stefan Kueng, il duo Trek-Segafredo Mads Pedersen e Jasper Stuyven, una Ineos-Grenadiers belle speranze (Filippo Ganna deve chiarirci se è anche da muri..), il vecchio fusto Greg Van Avermaet, il granatiere Sep Vanmarcke, il bretone volante Valentin Madouas, la linea verde fiamminga (Arnaud De Lie, Florian Vermeersch), quella americana (Matteo Jorgenson), ecc.
Evidente quest’anno, per adesso, la crisi e la trasformazione (storica) di ciò che fu il Wolfpack.
Gli uomini di Patrick Lefevere, la Sudal Quick-Step, sempre più combo al servizio di Remco Evenepoel (un tappista), non rappresentano più il centro di gravità permanente della campagna del Nord.
Julian Alaphilippe, Kasper Asgren, Davide Ballerini, Fabio Jakobsen non sembrano competitivi al cospetto della triade che potrebbe soggiogare la Ronde numero 107.

La Flanders Classics di Tomas Van Den Spiegel – che a Bologna basketcity (sponda Fortitudo) si ricordano bene – è il contrappunto indie (..) alla gigantesca ASO.
Vanta idee, sul presente e il futuro del ciclismo, oltre che dindi.
Domenica si riparte da Bruges per la prima volta dal 2016, dopo sei start da Anversa.
Dal Grote Markt, ci vorranno 8 chilometri per arrivare al Km Zero sul territorio di Beernem.
I 273,4 chilometri complessivi ne fanno la Ronde più lunga dal 1998.
Il primo muro si materializza al km 110, dopo il passaggio da Izegem (dove a giugno si disputeranno i campionati belgi), l’Huisepontweg, sui 19 previsti.
Il finale è quello degli ultimi anni, con due giri sul Paterberg e tre sul Vecchio Kwaremont.
L’ultima sequenza, micidiale, dai 228 km in poi, dal temutissimo Koppenberg, separerà i campioni dal resto della ciurma.
E’ festa in Belgio, nelle Fiandre, per il ciclismo, non per le gambe e le ossa dei ciclisti.

Rilettura di un pezzo pubblicato da Il Giornale del Popolo il 30 marzo 2018