GUIDA GALATTICA AL P-FUNK. IL CODICE CLINTON (WORRELL) E LA LIBRERIA MUSICALE PIU’ SACCHEGGIATA DELL’UNIVERSO

Guida apologetica (ma non troppo) ai Parliament-Funkadelic e alle sue dozzine di diramazioni nel decennio della semina (e del raccolto), ovvero gli anni Settanta.
Un’esplosione di creatività, di idee musicali, di metodi e pattern, un po’ Barnum e ancora piu’ Basquiat e Rammellzee.
Un’ottantina di musicisti che si avvicendarono nei progetti come dei viaggiatori ai duty-free degli aeroporti.
I P-Funk hanno stravinto, il loro codice – al pari di un virus senza vaccino – si rintraccia in una moltitudine di produzioni (post) moderne.
Talmente virali da essere ignorati persino da chi ne utilizza, prende in prestito senza restituire, un pezzo del loro DNA, non solo dal pubblico.
Che sia hip hop, rock o techno la contaminazione clintoniana della musica popolare è là (da ascoltare).
Un piccolo manuale sul P-Funk, che ne rispetti la sua essenza ambigua (diabolica?), non può altro che prodursi in una ridda di capriole spaziotemporali.

La critica rock svende i Funkadelic, che sarebbero pure i Parliament, cristallizzandosi sull’onda stellare di “Maggot brain”.
Disco e brano. Una soluzione comoda, ignorante, che evita un’esplorazione accurata di un catalogo mostruoso.
George Clinton nel 1971 aveva già (stra) vissuto sette vite: dal barber shop di Plainfield, il gruppo doo wop The Parliaments, la scrittura per Motown e Revilot, i primi casini coi soldi.
“Maggot brain” chiuse un’era e quella title track fu una dichiarazione d’intenti.


Madre Terra era incinta per la terza volta e da quel brano Sly & the Family Stone e Jimi Hendrix, James Brown, i padrini, i riferimenti logici del suono Funkadelic, divennero solo fantasmi.
Il contrasto micidiale tra luce e buio, sole e ombra, sarà la regola aurea del P-Funk già in nuce (nella testa di Clinton).
“Maggot brain” (il titolo) una memoria (negativa) personale.
George smarrì le comunicazioni con uno dei fratelli e lo ritrovò morto nell’appartamento di casa (forzato), col cranio sfondato.


Disse a Eddie Hazel di suonare un assolo come se avesse appena saputo della morte della madre.
Hazel, un supereroe della chitarra, in un take one portò la polvere di stelle hendrixiana oltre Orione, ridefinendo l’idea stessa di assolo e improvvisazione.
Clinton magheggiò dietro la consolle dello studio: non volle il nome dei tecnici audio sul disco.
Mise il rock nel dub.
Tolse la maggiorparte degli strumenti dal mix e lo saturò con un eco, lasciando un paesaggio sonoro etereo, desolante.
I Funkadelic delle origini morivano in quell’orgasmo cosmico, Clinton capì che era tempo di uno scarto, un salto, verso il futuro.
Mumbo Jumbo e il Jes Grew, “Gli extraterrestri torneranno” di Eric von Daniken, la sci-fi di Samuel R. Delaney, Sun Ra.
Inventarsi una storia, un immaginario, dall’inizio.

I Funkadelic originali partirono dai Parliaments e da Billy Nelson. Che nel 1967 reclutò un (giovanissimo) chitarrista, tale Eddie Hazel.
A Philadelphia, un mese dopo (settembre), all’Uptown, convinse un batterista, Tiki Fulkwood.
Tre mesi e il trio si battezzò Funkadelic e lasciò Detroit. Tiki per suonare con Tyrone Davis, gli altri due per cominciare un progetto (Sparky and the Pimpadelics) che fallì miseramente.
Too much, too soon.
Quando tutti rientrarono in Michigan, George Clinton vide la luce (..) del futuro anteriore.
I Funkadelic dell’esordio non erano una band, bensì un cantiere aperto, in costruzione: almeno due brani (“What’s soul”, “Mommy what’s a funkadelic”) erano jam di Nelson e Hazel dell’estate 1968.
Clinton si prese i crediti per la scrittura dei (due) pezzi.
Nel marasma di quei mesi, i veri Funkadelic nacquero quando Billy Nelson ritornò nel combo portandosi – da Plainfield – Tawl Ross alla chitarra (ritmica) e un organista (tastierista) chiaccheratissimo, Bernie Worrell.
Con Eddie e Tiki, supervisore George Clinton, i pezzi del mosaico si composero magicamente. Quel nucleo, per un biennio, creò un suono e uno stile.


“Free your mind..”, “Maggot brain”, “Osmium” dei Parliament, i due solisti di Ruth Copeland per la Invictus.
Nell’autunno 1971, i Funkadelic originali si erano già dissolti: Fulkwood fu preso da Miles Davis, Eddie e Billy dalla Motown.

Hazel per sette anni, Nelson per dodici, suonarono come “ghost band” in tante produzioni (di successo) Motown.
Norman Whitfield adorava Billy Bass, che era ovunque, ma fino ai lavori di Jeffrey Brown coi Temptations (“A song for you” e “Wings of love”) e Bonnie Pointer, i due venivano pagati senza essere riconosciuti come (co) autori.
Se il sound della black music anni 70 che andava (di moda), assomigliava a quello dei clintoniani era perché i Funkadelic stessi lo (ri) creavano a gettone.
In “Happy people” e “Shakey ground” c’era il marchio di fabbrica di Billy Nelson: il basso elettrico suonato direttamente nel banco mixer.


Hazel e Nelson erano nei Jackson 5, Love Machine, suonarono negli lp di Smokey Robinson, Willie Hutch, Eddie Kendricks, ecc. Sui primi tre dei Commodores, le linee di basso erano di Nelson.
Loro due più Bernie e Donald Baldwin suonarono in studio anche per Invictus (1973-74). “Finder’s keepers” dei Chairmen of the Board, una hit, un classico R&B, proveniva dalla libreria musicale dei nostri.


Ancora, nessun credito, solo soldi (in contanti).
Nel 1976, “Disco lady” di Johnnie Taylor vendette più di 2 milioni di copie. Fu il primo 45 giri di enorme successo con la parola “disco”.
La canzone venne jammata e scritta da Worrell, Fulkwood, Bootsy Collins e Glenn Goins.
Presero 5000 dollari a testa, senza comparire nei crediti compositivi.

Il P-Funk più di tutti ha (aveva) a che fare col caos.
Dal 1970 al 1981, 41 dischi ufficiali, più una massa informe di ospitate.
Nel ’71, l’anno di “Maggot brain”, i Funkadelic originali con Clinton fecero il bis con Ruth Copeland.
Se l’esordio della cantautrice inglese era (un pò) confuso, “I am what i am” si rivelò un diamante.
Lei, moglie di Jeffrey Bowen (produttore giro Motown e Invictus: tutto torna..), una bianca giunonica vestita da squaw, scalza, che cantava di libertà e Vietnam, spalleggiata da quattro afroamericani minacciosi che suonavano hard rock e funk.


Too much, too soon ancora una volta.


E non c’era Betty Davis che tenesse: Ruth era brava a scrivere le (sue) canzoni, la magnifica “The silent boatman” su tutte, e a interpretarle.


Copeland, al contrario della moglie di Miles, sapeva cantare.

A voler rintracciare col carbonio 14 le evoluzioni del periodo d’oro, dovremmo catalogare le ere Funkadelic tra alta e bassa Westbound, alta e bassa Warner Brothers.
La chiave – la svolta – fu il doppio di transizione “America eats its young”.
I Funkadelic originali erano andati via, comparivano per la prima volta Bootsy e Catfish Collins. Tawl Ross, dopo un acid test, una gara a ingollare droghe, era uscito fuori di testa e non sarebbe mai più tornato alla normalità (..).
Clinton prese il controllo totale del progetto. Divenne il produttore esecutivo, recuperò vecchi brani, scelse il fumettista Pedro Bell per l’estetica (coloratissima, horror, afrofuturista) delle cover Funkadelic.
Cercassimo la molecola base della diffidenza (l’astio?) verso il P-Funk, l’enigma della loro sottovalutazione, la troveremmo qui.
Se su “Maggot brain” c’era una citazione (diretta), “America eats its young” era permeato in profondità dal fascino sinistro della Process Church of the Final Judgement.
La setta di una coppia inglese, popolare nella West Coast, adleriana, che usava l’immaginario cristiano ribaltandolo, a metà tra dadaismo (sadico) e manipolazione.
L’intelligenza luciferina di Clinton si specchiò in quel potpouri estremo.
Rolling Stone, molti media pop, dopo il massacro di Bel Air della Family mansoniana non gli perdonarono quell’ambiguità.
“Miss Lucifer’s love” prendeva i Beatles, li spediva all’inferno, e schiudeva orizzonti lontani.


Il fuzz di Eddie Hazel, il piano martellante di Bernie Worrell, il drumming potente di Tiki Fulkwood. C’erano già i profumi di “Station to station” (Bowie, a proposito di Lucifero in California..), le strutture dei Faith No More di “Angel dust”.
Fuzzy Haskins sogghignava di una regina ninfomane: le coordinate erano quelle di Mary Ann MacLean, l’Oracolo della setta, la padrona del culto che controllava gli adepti con riti psicosessuali.

Clinton prendeva i migliori musicisti sulla piazza, li esaltava, li faceva splendere e poi li veicolava nella tavolozza del mixer.
Per Clinton, suona la control board, non la band.
Il remix continuo è la base dell’estetica musicale dell’Astronave.
A George interessava relativamente il formato canzone, preferiva giocare col puzzle dei suoni e degli stili.
Non era Kurt Weill o Paul McCartney (sigh), ma – se voleva – il songwriting lo portava da casa.
“Baby i owe you something good” chiudeva “Let’s take it to the stage”, uno degli apici dei Funkadelic guitar-oriented.
Clinton la registrò coi Parliaments nel 1967, per la Revilot, e faceva così Motown soul..


Nel 1972 con gli U.S. Music with Funkadelic, le prove generali verso il P-Funk, la ricostruì trasformandola in una polka gospel. Uno spasso.


Il numero di (appena) tre anni dopo è clintonismo all’ennesima potenza.
Le linee vocali di Calvin Simon (zucchero filato baritonale) e Garry Shider (estensione e falsetto) guidavano la marcia, Bernie Worrell rifiniva con l’Oberheim, la solista di Michael Hampton portava oltre.
Metal, gospel e funk. Mistico, barbarico, nemmeno un secondo di noia.
Donny Hathaway e gli Uriah Heep insieme, una magia.

Della parola “genio” si abusa spesso.
Nella musica popolare, uno strumentista più geniale di Bernie Worrell non l’avevano ancora visto.
Cominciò a suonare a 3 anni, a 7 eseguiva (piccoli brani di) Mozart, a 8 scrisse un concerto per pianoforte.
Quando Worrell entrava nella zona, i soccombenti diventavano tutti quelli che lo ascoltavano.
Il Vichingo Spaziale, in un paio di battute, collegava Bach alla techno, passando per Beethoven, Gershwin, Miles e i Deep Purple.


Worrell ci rivelava la pulsazione della musica e del cosmo.
Quegli arrangiamenti, quei tocchi sulle canzoni dei P-Funk, erano un trademark.
Clinton seppe gestirlo: fu l’unico a riuscirci. Bernie rifiutò Miles Davis: preferiva la follia naif dei clintoniani, giustificando la scelta con una frase al 100 % Worrell.
“A vedere i Funkadelic c’è molta fica.”
I ping pong creativi di Worrell con Clinton divennero uno dei leit motiv della ditta.
Il capo decise di liberare Bernie su un pezzo senza restrizioni, ogni tanto, sugli album dei (nuovi) Funkadelic.
“A joyful process” e “Atmosphere” erano ottimi esempi.
La title-track di “Tales of Kidd Funkadelic”, 1976, nacque da una impro del nostro tra Moog, ARP e Hohner Clavinet.


Worrell produsse una stratificazione di tastiere, scurissime, ci affastellò sopra una serie di assoli in pitch.
Clinton lo istigò (..) con delle voci velocizzate e delle percussioni robotiche.
Afrobeat e scoring di un film horror immaginario alla partenza, poi un delirio techno-funk sempre più sincopato.
La leggenda volle che la cantante Jessica Cleaves, mentre il dinamico duo si divertiva tra synth e nastri, scappò via dallo studio, impaurita da quelle atmosfere sulfuree.
Satana, Bernie e George.


Il genio di Worrell, provocato da Clinton, produsse quel mostro sonoro di 13 minuti.
House, tape-music, jazz-rock, funk, skunk come la luce di un quasar.
La sequenza di basso moog di “Tales of Kidd Funkadelic” rivivrà nella techno berlinese di Paul Kalkbrenner, 33 anni dopo.
Quella nuvola nera di suoni, un monolite illuminato nel cielo dai lampi, rivive spontaneamente in tutta l’elettronica (radicale) off.

Fulkwood aveva uno stile di batteria rock and roll, Tyrone Lampkin da jazz big band, l’arrivo di Jerome Brailey (dai 5 Stairsteps di Don Child ai Chambers Brothers) completò l’arsenale Parliament.
Con Bigfoot dietro le pelli, dal 1975 al 1978, il P-Funk non ebbe più limiti.
Uomini che suonano come le macchine, le imitano e le superano: Clinton comprese che era scattata l’ora dell’Astronave.
Uno spettacolo che incorporava afrofuturismo, apocalisse, liberazione e groove. Star Trek, droga libera e Diamond Dogs.
Le prove generali nell’ottobre 1976, il pandemonio a Oakland il 22 gennaio 1977.
Clinton – aka Dr. Funkenstein – scendeva dalla Space Cadillac a mostrare la via.
Lo annunciava Glenn Goins, con una voce che incorporava centinaia di anni di cultura afroamericana,

lui che era Prince prima di Prince e che crepò prestissimo, a 24 anni, per il linfoma di Hodgkin.
Aveva già lasciato i clintoniani, formando i Qazar, accusando George di una pessima gestione finanziaria del giocattolo, e così era stato anche per lo stesso Brailey, Cal Simon, ecc.
Ma il macchinario – lanciato oltre la velocità del suono – era impareggiabile.
Da James Brown giunsero pure Fred Wesley e Maceo Parker, la sezione fiati svettava, dagli Ohio Players il talento extra-large di Junie Morrison (direttore musicale del combo dal ’77), dagli Headhunters (ed Hancock) alle sei corde si aggiunse Blackbyrd McKnight.


Skeet Curtis e Boogie Nelson si affiancavano, come bassisti, alla star Bootsy Collins.
Clinton non era più l’agit-prop brutale di “Cosmic slop”, della mamma afroamericana che si prostituisce per mantenere i figli, pensava a (nuovi) concept come metafore del consumismo e dell’American Dream.
Il P-Funk, sin dai giorni di “Osmium”, nel suo immaginario circense (oltraggioso e sguaiato) nascondeva alla superficie l’idea clintoniana di fondo.
Clinton era mosso dalla consapevolezza – spaventosa? – che ai media, quindi alla folla, interessi solo il lato oscuro delle storie.
Il P-Funk introdusse il nerissimo pece, il funereo più agnostico, nei meccanismi della black music.
L’Astronave, la sua calata, era un atto di luddismo verso la storia: che come ogni altro rito, fu inventata dai nemici.
Per quasi tre anni (leggendari), George Clinton si scopò il sistema d’intrattenimento americano. Doggy Style.

L’Astronave solcava i cieli, luminosissima, mentre un ammutinamento cominciava.
I cantanti perdìo, quelli bravissimi (Cal Simon, Glenn Goins).
Ma nell’ippocampo clintoniano si coltivava il Sacro Graal di “Funkentelechy vs the Placebo Syndrome”: ognuno ebbe il ’77 che si meritava.
L’hip hop nacque, senza i sottotitoli in diretta della televisione, lì.
Alfabeto, linguaggio, sound, ritmiche, motivetti, voci (ne), poesia di strada.
Inizia l’apoteosi del P-Funk, e pure la sua morte accelerata.
Il gran finale di “Funkentelechy”, “Flashlight”, si sviluppava su una linea cromatica assassina di Worrell, che aveva collegato insieme tre Minimoog.
L’effetto fu un tuono che dettava il tempo e il groove.
Clinton ci infilò la melodia di una canzoncina di (un ballo a) un bar mitzvah che aveva ascoltato a New York.
L’hook di voci e bassi, i fratellini Collins alla ritmica (Bootsy alla batteria), resero “Flashlight” una pietra miliare della musica pop (rock) e un singolo da più di un milione di copie vendute.


I Minimoog ruggenti che sostituivano il basso furono il passaggio chiave, nell’estetica pop (oggi dominante), che congiunse la linea di basso elettrico di Larry Graham su “Thank you (Falettine be mice elf agin)”, il primo successo con la base ritmica a guidare (1969), a “When doves cry” di Prince (1984) dove tutto era ritmica e il basso elettrico non esisteva (più).
Nel fumetto clintoniano, l’album dei Parliament ammassava materiale pop da ogni direzione e lo rimodulava: svariati i riferimenti ai programmi tivù dell’epoca, alle sigle dei jingle, agli spot pubblicitari, ai cartoni animati, ai film.
Tutto – smontato – si ricomponeva nuovo e provocatorio, in una satira amara sulla società americana.

Nel gioco delle parti, negli incastri tra sigle, i Parliament stavano diventando gli sperimentatori del P-Funk, i Funkadelic correvano verso il trionfo (di “One nation under a groove”) con stilemi Parliament (e Bootsy’s Rubber Band).
Nel 1978 la formula – magica – clintoniana pareva senza soluzione di continuità, un avvicendarsi continuo di riff e hit, maschere e personaggi.
Non che finì quell’anno, “Uncle Jam wants you” era un disco della Madonna, ma il Monte Everest dell’Astronave fu (il lato b di) “Motor booty affair”.
Un altro concept, sottomarino, ambientato in quel di Atlantis, laddove l’acqua è la libertà. I disegni – fichissimi – di Lord Overton, con tanto di figurine e poster dei protagonisti.

“Liquid sunshine” era un (piccolo) manifesto del P-Funk in una specie di stato di grazia.
Junie Morrison comandava la baracca, impilando effetti di synth, linee e armonie, Worrell lo seguiva (sfidandolo): in alcuni momenti, un’orgia di suoni, i due sembravano giocare in un videogame.
Skeet Curtis, al basso, portava (molto) più jazz al menu. Lo squarcio rock in mezzo, con tanto di assolo di chitarra, mezzo minuto di golpe Funkadelic.
Frasi musicali combinate con strutture armoniche conseguenziali, i canti (i cori) sostituivano gli assoli del jazz modale.
Il P-Funk creava una struttura con il suono: la bandierina, sulla musica pop, la misero i clintoniani.

L’Astronave, più che schiantarsi (con qualcuno dentro) finì la benzina e fu abbandonata al suo destino di ruggine e maledizione.
Clinton si era allargato troppo, nel business, e aveva preso la cattiva abitudine di frequentare salme viventi (..) come Sly Stone e David Ruffin.
Stava sprofondando nella (tossico) dipendenza da freebase e crack.
Nella mischia, un uragano di cose: il fallimento della Casablanca, l’apertura della Uncle Jam, i rapporti tempestosi con Warner, il management sanguisuga, ecc.
La produzione dell’esordio di Roger – “The many facets of Roger” – fu il biglietto della follia clintoniana.
George e Bootsy Collins ci lavorarono su, Roger Troutman (a disco chiuso) lo portò (vendette) alla Warner, escludendoli dai diritti produttivi.
Il P-Funk finanziariamente era nelle sabbie mobili.
Ad aggiungere problemi, non solo i Mutiny di Bigfoot Brailey, ma altri Funkadelic (!), vecchie conoscenze (Fuzzy Haskins, Calvin Simon, Grady Thomas) con lo stesso monicker della casa madre.
“The electric spanking of war babies”, un album niente male (col futuro in tasca..), nacque a metà (avrebbe dovuto essere un doppio), ebbe problemi di censura con la copertina e scontò una promozione (Warner Bros) ai minimi termini.


I Parliament-Funkadelic morirono dal vivo, sulla strada, nel 1981: il Greatest Funk On Earth Tour ebbe solo nove date, l’Astronave stava perdendo pezzi, uno dietro l’altro.
Clinton e i suoi se ne fregarono: a Washington, George emerse nudo dalla Space Cadillac, a Saint Louis, Bootsy si sparò un quarto d’ora di assolo sonico, i P-Funk jammavano come non ci fosse stato un domani.
E così fu, l’ultimo concerto a Detroit.

Clinton continuava, a dispetto del buco economico e della coca, a capire come si confezionava il funk.
“Work that sucker to death” degli Xavier, un singolo di successo, mostrava ancora (intatto) il tocco magico di Dr. Funkenstein.
La Capitol Records, soddisfatta, propose un contratto per l’esordio solista del nostro.
Su “Computer games” (1982) ci fu la vera festa d’addio dei P-Funk.
Erano rimasti i fedelissimi della ciurma del Padrino: Worrell, Collins, Hazel, Shider, Wesley, Parker..

“Atomic dog” partiva e si udivano (già) i Daft Punk e poi i rumori, i bassi a palla, l’elettronica spinta, il caos organizzato.
Electro-funk degenerato a puntino.
Allo United Sound di Detroit, mentre Clinton provava le tracce vocali, misero la base di “Atomic dog” al contrario, per sbaglio.
Clinton si mise a improvvisare e cantò quell’hook micidiale. “Bow-wow-wow, yippy-oh, yippy-ay.”
George aveva già 40 anni, una fama (torbida) di guastatore, e da Afrika Bambaataa e Grandmaster Flash (il codice Clinton) si moltiplicherà, come una sequenza molecolare dominante, ovunque.
La techno di Detroit, da lì a poco, quelli di Belleville, ci sguazzeranno in quelle strutture fisse che si modificano.
I P-Funk contaminano, inquinano, tutta la musica popolare.
A oggi, “Atomic dog” è stata campionata 320 volte.
La batteria che comincia “Good old music”, negli anni Novanta finiva in “Safe from harm” dei Massive Attack, “Kinda i want to” dei Nine Inch Nails, “Ventolin (deep going mix)” di Aphex Twin.
Il sample di “Get of your ass and jam” rimbalzava in “Bring the noise” dei Public Enemy, “Next to nothing” di Fatboy Slim, “Kowalski” dei Primal Scream.
Il rap da quarant’anni suona i dischi dei P-Funk.
“The chronic” di Dr Dre (1992) sdoganò l’ossessione del G-Funk per i clintoniani: l’uso del synth è cooptato dai Parliament.
I Funkadelic risuonavano nel rock guitar-oriented che corre (va) verso il crossover: new wave e hard and heavy soprattutto.
Hip hop e cultura dj – oggi – continuano a usare e citare l’Astronave.

I Parliament-Funkadelic proseguirono nelle aule dei tribunali.
Nene Montes, uomo volante dei P-Funk (tuttofare: anche spacciatore), si era intestato le licenze delle ristampe Charly.
Con Armen Boladian, il manager successivo dei clintoniani, finì persino peggio: Boladian, tramite prestanomi, intascò per anni le royalties dell’intero catalogo.
Clinton riebbe i diritti dopo una lunga (e costosa) causa legale.
Alla fine, sulla gestione della barca, Billy Nelson (il primissimo a battere cassa e protestare) ci vide lunghissimo..
Per l’accolita è stato un disastro.
Di soli sampling e percentuali sulle vendite, e passaggi radiofonici, molti P-Funk non sarebbero morti poveri in canna.
Eddie Hazel, il guitar-hero dei Funkadelic, morì alcolizzato nel 1992.
Roger Troutman, virtuoso del talkbox, quello che fotté il (suo) master a Clinton, nel 1999 venne ammazzato – a colpi d’arma da fuoco – dal fratello Larry.

Bernie Worrell, il Vichingo Spaziale, è andato oltre – nel 2016 – dopo che il cancro alla prostata, scoperto tardi, si era diffuso al fegato, ai polmoni e alla gola.
Non aveva il denaro necessario, in banca, per curarsi.
George Clinton, 82 anni a luglio, persiste in un curioso (infinito) tour d’addio: pensiamo voglia morire sul palco, inumato con una cerimonia stile Attila.
Ci lascia (no) la libreria musicale più saccheggiata dell’universo e la sensazione (sgradevole) che, sul pianeta terra della musica, un’altra Astronave non ripasserà più.