“KILLING AN ARAB” SUONATA AL PARCO DEI PRINCIPI. IL NOLE LIMITATO DEL 2006

Taccuino gomito a gomito, un (piccolo) viaggio al termine dello sport nell’evo (indifferente) del covid-19.
Che a vedere certi avvenimenti – iconici, come Monte Carlo – non si può stare che con quell’hipster dissipato di Benoit Paire: “Sembra di giocare in un cimitero.”

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Un fotofinish di quattro millesimi di secondo consegna l’Amstel Gold Race a Wout Van Aert su Thomas Pidcock.
In una curiosa staffetta in casa Jumbo Visma con Marianne Vos – la nostra candidata futura UCI per toglierci dalle scatole Lappacoso – come a Wevelgem, il nostro chiude un filotto primaverile mostruoso (quattro vittorie, tre secondi e tre terzi posti, un quarto, un sesto, un nono, un undicesimo, un tredicesimo).
I due Van e i due sloveni stanno ribaltando il tavolo.
Il più classico è proprio il belga, una specie di Fabian Cancellara con una classe e uno stile che fanno tanto Rik Van Steenbergen e un po’ Gianni Bugno.
Se Van Aert fosse stato un ras della pista (come fu Rik I), invece che del ciclocross, avrebbe avuto l’istinto di scodare – in volata – il britannico, evitando l’epilogo cuore e batticuore.
Abbiamo così il terzo ciclocrossista nella banda di quelli forti forti (il quarto si chiama Ben Tulett: segnatevi il nome): Pidcock l’avevamo annunciato tempo fa, più che altro si era presentato da solo, in Italia al Giro baby 2020 stradominato.
Un tecnico di (alto) livello lo definì “un Tasso tascabile”: ci manca solo un Bernard Hinault bonsai, nato a Leeds, per noi (italiani) che oggi pagheremmo per avere un Silvano Contini.

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Degli arrivi a due sulla fettuccia, a qualche centimetro tra la gloria e la dannazione, il ciclismo pro è zeppo.
Prima dell’Amstel di domenica, gli episodi più celeberrimi accaddero all’Inferno, alla Parigi-Roubaix.
Il fotofinish più crudele avvenne nel 1990, quando Eddy Planckaert batté Steve Bauer (un campione al quale mancò in carriera la grande vittoria..).
Lo raccontiamo ne “In Fuga Dagli Sceriffi” : il canadese perse per un centimetro, Eddy – allo zenit (epilogo) da pro – spese parole dolci per un farmaco usato, dai grandi effetti e dal piccolo nome (tre lettere), che avrebbe colonizzato il ciclismo (e lo sport) anni Novanta.
Eppure la Rubé (più) rubata fu un’altra: nel 1936, al Velodromo, finale a tre.
Gaston Rebry, che fece la selezione sotto la pioggia, dovette arrendersi: lo sprint fu un testa a testa fra Romain Maes e (il più veloce: in teoria) Georges Speicher.
Il belga precedette il francese sulla linea d’arrivo, di almeno mezza ruota, ma il giudice (transalpino) capovolse l’esito regalando il successo a Speicher.
Una truffa.

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Se avevate dei dubbi sull’impalcatura ideologica e mediatica del calcio, ridondante, bulimica e populista (fascistissima..), dopo la morte (a rate) di Diego Armando Maradona, le reazioni all’annuncio (scontato..) della Super Lega reiterano ancora meglio quel tipo di immaginario.
Trent’anni dopo il Milan degli invincibili, a venti dal Real Madrid dei galacticos, il pubblico (pagante?) pare scendere da un albero (sul quale c’era un decoder televisivo).
La FIFA e l’UEFA che proteggono le (sacre) tradizioni pallonare sono una barzelletta, se non ci fossero montagne di dossier sul loro operato (corruzione, elusione ed evasione fiscale) e il conto dei morti – all’insù: siamo a quasi 7000 – per Qatar 2022.
Eppure la Champions League, che fu l’inizio di questo processo (finanziario ed entropico), offrirebbe la semifinale più simbolica dell’evo moderno.
Se di là abbiamo i New York Yankees del foot, il Real Madrid, e un’inglese del petrorublo (il Chelsea), di qua lo scontro è arabo.
PSG e Manchester City, applicando le regole (nemmeno troppo severe..) del fair play finanziario, non dovrebbero giocare il torneo.
Ma l’allora segretario della FIFA, Gianni Infantino, oggi presidente, consentì il raggiro: i due club falsificavano le cifre, gonfiando i contratti di sponsorizzazione.
Un metodo esemplificato dai contratti di Roberto Mancini, il primo allenatore del City della grandeur, che – come consulente (sic) – del fantomatico Al Jazira Sports and Cultural Club, ricevette 1 milione 750mila sterline all’anno di bonus.
E triangolazioni (ma Tex Winter non c’azzecca..) come non ci fosse un domani: dall’Adug, una società immobiliare, a un’altra nelle Mauritius fino alla Fidor (una fiduciaria) a Roma.
Eliminata la squadra più forte di questo biennio, il Bayern Monaco, il derby del Golfo Persico è una finalissima anticipata.
La macchina da foot di Pepe Guardiola, di Kevin De Bruyne (il calciatore europeo di maggiore qualità?), del principino Phil Foden, di Ilkay Gundogan.
Contro la multinazionale del talento dei Kylian Mbappé, Neymar, Angel Di Maria..
La beIN Media Group, il fondo sovrano e tanto altro (..) di Nasser Al-Khelaifi: il PSG è solo la punta di diamante della strategia espansiva qatariota.
Il miliardo e 300 milioni di euro spesi sul mercato calcistico (222 milioni per il solo Neymar..) ha a che fare con lo shopping di tanto altro.
Quote ovunque, Barclays, Volkswagen, Walt Disney, Royal Dutch Shell, etc.: gli Al-Thani si comperano tutto quello che vogliono, compresa l’ANSA italiana (sponsorizzata dall’Ambasciata del Qatar) e il calcio.
Gli emiratini mancuniani seguono le stesse dinamiche: Mansur bin Zayd Al Nahyan e Khaldun al-Mubarak, il principe diesse e il presidente del City, in dodici anni (dal 2008 al 2020) hanno investito (..) più di 1 miliardo 760 milioni di euro in 278 giocatori.
Il calcio non sappiamo se è mai stato uno sport, ma un vettore politico e sociale, formidabile (un cavallo di Troia..), di sicuro.
Entrambe le creature degli sceicchi – differenziandosi in questo aspetto dalle altre Grandi – non cercano di generare profitti, ma di cambiare (mediaticamente) la reputazione (sospetta) dei loro Stati (canaglia).
Così Al-Khelafi – che con la defenestrazione di Andrea Agnelli (il “cattivo”, nella favoletta venduta al tifoso cliente) è diventato anche il capo dell’ECA.. – si organizza il Mondiale FIFA a casa, Doha, e il principe Al Nahyan inaugura il Louvre Abu Dhabi, alla presenza di Emmanuel Macron: il marchio – l’etichetta (patacca) – costò 525 milioni di euro.
Bruscolini..
Dell’arabizzazione dei piani alti occidentali, di quelli che muovono le pedine, non ci resta che assistere.
Rimane, in fondo, una curiosità (tra le tante): sapere se all’Etihad Stadium e al Parco dei Principi i dj possono suonare “Killing an arab”.

4

Il Principato (l’offshore scuola di vita: lo sport ci insegna tutto..) regala un 1000 talmente normale nel tennis che fu – la finale tra un classe ’98 e un ’97 – che oggi, nel tardo Federerismo, pare eccezionale.
Ogni tanto, Rafa Nadal (con una prima da senior tour) e Novak Djokovic (senza rovescio lungolinea: un’eresia per lui) mostrano di essere sulla strada – rispettivamente – dei 35 e 34 anni.
Al netto dell’omologazione del gioco e delle superfici, delle luxilon, dei tabelloni arrangiati (per i big), la loro continuità – spaventosa – rimane aliena agli altri.
Chissà se Dominic Thiem, potenzialmente il prossimo vincitore del Roland Garros, vedendo il nadalicidio commesso da Andrej Rublev (l’ultimo parziale, un poster del tennis ignorante), si sia convinto delle (sue) possibilità.
Visto che l’austriaco, dal prologo down under di quest’inverno, è parso bruciacchiato (!) dallo choc del primo scalpo Slam.
Oltre il sorteggio, Dominic sembra il solo – sulla terra rossa – con l’arsenale per evitare l’ennesimo major firmato Rafa o Nole.
A meno che Stefanos Tsitsipas, in una forma psicofisica clamorosa a Monte Carlo, alzi ulteriormente la quantità nel suo tennis qualitativo.
Sarebbero in tanti, soprattutto l’ATP, felici di vedere il greco svettare: per chassis complessivo (gioco all around e immagine), l’unico che potrebbe ereditare – in parte – il tesoro di appassionati che rimarranno senza Roger Federer.

5

Nel quadro della sinnermania, le esagerazioni della stampa generalista (che è calcistizzata anche quando non vende la Pallonara), abbiamo udito (e letto) fesserie anche dagli addetti ai lavori.
Sulla precocità, l’essere predestinati, le statistiche, etc.
Djokovic bimbo, nei primi anni di circuito pro, per alcuni era limitato (sic).
Quest’anno – proprio a Monaco – correva l’anniversario dei quindici anni dalla vernice tra il serbo e Federer.
Che nel 2006 – a 24 anni.. – era già il Re: non erano i numeri, o solo quelli, ma l’impressione tecnica e agonistica.
Non fregavano molto gli Slam, interessava di più quel dominio sull’inerzia della partita, a tutto campo (ferro e piuma), con una rosa di diritti da playstation (il braccio fotonico).
Era quello che aveva battuto Pete Sampras a Wimbledon, nel 2001, cinque set classicissimi, sull’erba (vera, mista) alta 4 millimetri.
L’allora Djoker (che ci manca un po’) perse di routine il set d’apertura, ma girò il secondo su una difesa strenua nel rally più importante del game.
Non ancora diciannovenne, portò al terzo l’allora numero uno del mondo: Roger dovette fare Roger per spegnere (..) il giovinastro (6/3 2/6 6/2).
C’erano già tutti i temi tattici della loro rivalità: Federer era costretto a un vincente in più (..) quando aggrediva, Djokovic esibiva un tennis orizzontale raro, cazzimma e una risposta (d’anticipo) sfolgorante.
Federer lo faceva ammattire di variazioni e serve and forehand.
Si capiva, in diretta, che avremmo visto altre sfide, magari tra il venerdì e la domenica decisiva dei (grandi) tornei: e in un panorama complessivo che era meglio (Rafa, David Nalbandian, Andy Roddick, Nikolay Davydenko, Tommy Haas, Tomas Berdych, etc.) di quello attuale.