LA TELA NERA DI DAVID BOWIE

A volte ritornano e lo fanno, al solito, con gran classe.

Non sappiamo se ascolteremo “The next day”, il nuovo disco di David Bowie, di sicuro preferiremmo mantenere il ricordo degli anni d’oro. L’unica nostalgia che coltiviamo è quella del futuro.

Però il coup de théatre bowiano ci piace assai: dimostra, a 66 anni, l’intelligenza, la preveggenza, ancora intatte del personaggio. Che è sparito dalla scena, tempo fa, e ha fregato ancora una volta tutti: nell’era del villaggio globale, l’assenza è diventata il mezzo migliore per perpetrare la propria leggenda.

Chi è assente ormai ha sempre ragione. E se un bel pò di persone, di svariate generazioni, l’11 marzo andranno a comperare l’album (o lo acquisteranno – fruiranno – attraverso internet, ennesimo segno dei tempi) sarà per omaggiare ciò che ha rappresentato David Jones – e le sue mille maschere – ai loro occhi.

Andando oltre la lettura psicoanalitica della sua fama (“Una tela nera sulla quale la gente scrive i propri sogni” cit. Frith-Howe) il percorso folle, avventuroso, del suo evo più rappresentativo (più o meno dal 1969 al 1983) è un caleidoscopio che ci rammenta quante differenze ci siano tra il pop di oggi e il rock (e la musica popolare) degli anni Settanta.
Quando pareva che in giro ci fossero sei o sette David Bowie contemporaneamente. L’iperattività misteriosa, superomistica, di un precursore del marketing di se stessi.

Ecco quindi il cantautore, il mimo, l’attore, il divo bisex, la rockstar tossica, il musicista sperimentale, l’istrione, lo sciamano, l’esoterista, talvolta contraddittorio e cialtrone però mai profeta dell’ovvio.

Manifesto programmatico, simbolo, di un’arte popolare che volava alto in quanto affiancata, o non ancora sbranata, dall’industria mediatica. Così si spiegano in altri lidi, pure l’Afroamerica tra soul e funk, la canzone francese, la Kosmische Musik, la MPB, etc. Quel momento storico consentì a tanti il privilegio di poter osare, senza essere per forza esclusi dal mercato.
Per una congiuntura fortunata, la qualità di certe proposte viaggiava quasi assieme alla quantità di dischi comprati dal pubblico.

Quarant’anni dopo, lo scenario è mutato radicalmente: la musica popolare, vettore culturale allora fortissimo, si è trasformata in un mezzo dal messaggio inesistente o impotente. Fagocitata dal linguaggio pubblicitario per essere esposta (..) meglio e svenduta dai nuovi media.

Le mille canzoni stipate in un i-pod, che cancellano le biodiversità, notificano la polverizzazione (se non il fallimento) del sistema.
Che oggi fattura certezze solo riproponendo ossessivamente il passato o fabbricando fenomeni da baraccone. La retroazione, in un panorama stipato di novità presunte, produce anche un approccio sempre più superficiale del pubblico.

Crediamo impossibile oggi un’altra odissea bowiana, cioè all’insegna di una musica pop sì di massa ma con un metalinguaggio colto e raffinato.
Una vocazione che nel 2013 è improbabile, non perchè non esistano interpreti e musicisti di livello, ma alla luce dei meccanismi tecnici (e tecnologici) che hanno ridicolizzato il raggio d’azione delle idee.
Basti riflettere sull’effettivo valore delle ultime sensazioni: tra vent’anni le riascolteremo ancora e, se ciò avverrà, come le considereremo? Il Bowie di “Low” (1977) è un esempio perfetto: un’opera, un classico, che il tempo ha migliorato.

E’ arte pop in grado di non sfigurare rispetto al Novecento delle avanguardie storiche e al jazz.

L’epilogo, d’obbligo, è su Ziggy Stardust: teatro musicale dai confini infiniti perchè proiettati verso lo spazio e le stelle.

Quando fece seppuku, il 3 luglio 1973, era sulla cima della montagna. Il film di D.A. Pennebaker, l’ultima testimonianza di questa creatura bizzarra, un pò Marlene Dietrich, un pò Caronte, mostrava la routine esemplare di un gruppo. Il frammento più incredibile del concerto era Jacques Brel riproposto da un “cantante di plastica”, favoloso, che giostrava i suoi trucchi con saggezza glaciale.

Eppure là, nel buio, c’era il senso delle cose. Il pallore spettrale del viso, una tutina clownesca e il canto tesissimo, a nervi scoperti. Sotto il palco le ragazzine miagolavano estatiche, ignare forse del significato recondito della messinscena. L’apocalisse venduta agli adolescenti, un seme da germogliare, l’opportunità di aspirare a un’arte pop degna di essere vissuta, non solo consumata in fretta. O forse una beffa pirotecnica, paragonabile alla radiocronaca di Orson Welles dello sbarco alieno sulla terra.


Pubblicato nel marzo 2013 da Sole E Acciaio