LA COPPA DI DOMINIK PARIS. LA VUELTA DE FRANCIA DI JULIAN ALAPHILIPPE

La Coppa ritorna in Europa dopo il tour nordamericano, sulla Face de Bellevarde per il comparto maschile e l’Engiadina per quello femminile, e l’equilibrio (con una doverosa eccezione, rosa) comanda la kermesse.

Quattordici gare, tredici vincitori differenti, e la regina Mikaela Shiffrin (già a due vittorie e in fuga nella Generale) a staccarsi dal plotone.

Dominik Paris ha già vinto tre volte la discesa di Kitzbuhel: la Streif  da sola vale più di qualsiasi oro olimpico o mondiale.

La classifica maschile, terminata l’era di Marcel Hirscher, non è mai sembrata aperta a così tante soluzioni (inedite); persino il trionfo di un velocista puro.

Esaurito l’evo storico dei grandi polivalenti (da Jean-Claude Killy a Bode Miller), per lo sviluppo dei materiali e dei carichi di lavoro specifici, lo sciatore evoluto (Hermann Maier docet) e lo slalomista versatile (koenig Marcel uber alles..) sono diventati i modelli di riferimento.

Un bordone facilitato anche dai giorni di competizione assegnati: pure quest’anno, delle quarantacinque prove l’alveo tecnico somma dodici slalom speciali e nove giganti; tre in più rispetto alle (dieci) libere e ai SuperG (otto).

Con il corollario delle tre combinate, da anni una parodia del passato, e paralleli, un circo a due piste (..), che di sicuro non tendono a premiare chi si tuffa dal cancelletto della Streif o della Stelvio.

Da sempre, per un velocista doc la strada per il trofeo di cristallo è in salita..

Non la vinse nemmeno Franz Klammer, il semidio che divenne sinonimo di discesa, negli anni pre supergigante; non la avvicinarono (altri) fenomeni come Peter Muller e Didier Cuche.

L’unicum fu rappresentato dal 1997 di Luc Alphand, che si aggiudicò la coppona (..) con un margine risicato, trentasei punti, contro un Kjetil André Aamodt così così.

A Vail, nel 1997, col pettorale rosso, Luc Alphand sigilla la sua Coppa del Mondo.

Una concatenazione di eventi: il francese che fece quasi filotto sulle piste classiche (Bormio, Kitz, Garmisch) e la concorrenza in un’annata di mezzo.

Sulla Kandahar, a febbraio, Alphand battè nel SuperG un certo Maier: l’epoca di Herminator stava arrivando.

A cinquant’anni dalla vernice vittoriosa di un italiano, il più grande di sempre, Gustavo Thoeni, l’11 dicembre 1969 in un gigante sulla Daille (che oggidì è l’Oreiller-Killy), ci si chiede se Dominik Paris possa ripetere – in un altro periodo di transizione – quell’exploit del ’97.

Il problema, osservando il circo bianco tra Lake Louise e Beaver Creek, è la qualità (alta!) del discesismo contemporaneo.

Tanto talento distribuito fra Wunderteam, Vincent Kriechmayr e Matthias Mayer su tutti, Norvegia (Kjetil Jansrud, Aleksander Kilde, Adrian Sejersted..), Germania (Thomas Dressen, Josef Ferstl), Francia e Svizzera (attenti che sta arrivando Marc Odermatt..).

Oltre l’affollamento, la difficoltà dell’uomo jet dominante viene spiegata dalla parabola (complicatissima) di Beat Feuz.

Che nel 2012 perse di un’incollatura, appena venticinque punti, la Coppa del Mondo.

La primissima del regno di Hirscher e la più lottata di tutte: il bernese, scendendo da un salto sulla Rosa Khutor (nella gara che si aggiudicò..), si lesionò il ginocchio sinistro e modificò – per sempre – le prospettive (egemoniche?) della sua carriera.

Ogni tanto, da fuoriclasse, ci ricorda cosa avrebbe potuto essere (con continuità) a dispetto di quel corpo (rotondo..): sabato scorso, dal Golden Eagle in giù, si è inventato traiettorie inconcepibili (dagli altri).

Entrando nei due mesi decisivi, dei monumenti, ci si rende conto che le ambizioni di Henrik Kristoffersen e Alexis Pinturault sono meno complicate da realizzare.

L’asterisco finale, che sarà ignorato dalla FIS, è il sogno di un circuito che premi di più gli eventi classici, le piste che creano l’immaginario di questo sport.

Attribuire gli stessi punti, cento, a chi vince la libera del Lauberhorn (o il gigante sulla Gran Risa, etc.) e a chi arriva primo in un parallelo (la versione alpina di Giochi Senza Frontiere) è una scemenza.

2018. Julian Alaphilippe vince la Freccia Vallone staccando Alejandro Valverde.

Col Velo d’Or assegnato a Julian Alaphilippe, il 2019 del ciclismo su strada è diventato materiale da almanacco.

Premio meritato per il (giovane) ras della Loira che, lungo cinque mesi, ha unito la primavera dei classicomani (Strade Bianche, Milano-Sanremo e Freccia-Vallone) con l’estate dei tappisti (il quinto posto – da eroe nazionale – al Tour de France).

Quando a metà ottobre ASO ha presentato alla sua maniera, ovvero in pompa magna, la Grande Boucle 2020, il pensiero (stupendo?) è andato subito al capitano della Deceuninck-Quick Step.

La Vuelta de Francia, un tentativo estremo, l’ennesimo, di far vincere il Tour a un francesino (includiamo anche Thibaut Pinot e Romain Bardet nell’elenco) o a un corridore da due settimane e mezzo: le (due) cose, in questo caso, combaciano.

Niente pavé, una sola cronometro atipica di 36 chilometri – che si conclude sull’erta di La Planche des Belles Filles – il sabadì dell’epilogo, una sola (!) vetta oltre i 2000 metri d’altitudine (il Col de la Loze..) e una sola tappa (su ventuno..) sopra i 200 chilometri.

Una corsa gialla nervosa, zeppa di salite(lle) e televisiva: il (grande) ciclismo fatto coincidere con il garagismo bonsai della Vuelta settembrina.

Formato smartphone.

L’ASO, che dispone del movimento come fosse di sua proprietà, immaginario e (tanti) dindi, impone questa tendenza nell’evo più fortunato del ciclismo moderno recente: durante il passaggio di testimone tra la generazione (importantissima..) dei Philippe Gilbert, Chris Froome, Vincenzo Nibali e le nuove (straordinarie: Egan Bernal, Mathieu van der Poel, Remco Evenepoel, Tadej Pogacar) leve, con in mezzo i Peter Sagan, Tom Dumoulin, Primoz Roglic.

L’assenza di molte montagne leggendarie e la quasi abiura alle cronometro: una cifra stilistica procteriana, carente di cultura tecnica e che tende allo stereotipo.

Si rincorre il pubblico generalista che non comprende il senso e la bellezza estetica dell’esercizio contro il tempo, quella che i Giuseppe Ambrosini definivano la prova della verità, o l’importanza del muro psicofisico dei duecento chilometri percorsi.

La mancia è rappresentata dal gorilla del Crodino sulla schiena del buon Alaphilippe: convinto e costretto a investire su un programma incentrato sulla Festa di Luglio.

Per provare a fare Laurent Fignon (..), in un periodo molto più cyberpunk di questo, Laurent Jalabert – l’ultimo vero Grande di Francia prima di Ala – buttò alle ortiche un paio di anni, all’apice della carriera, rincorrendo il sogno della maglia gialla a Parigi.

1985. Maria Canins e Bernard Hinault premiati ai Campi Elisi: è l’ultima vittoria di un corridore francese al Tour de France.

Il rischio, considerando il lignaggio degli avversari (quest’anno, al Tour, non c’erano Froome, Dumoulin e Roglic..), è che il 2019 rimanga una primula rossa e che il migliore corridore da classiche vallonate rinunci alle sue (vere) potenzialità.

Le leggende metropolitane poi, sulla Grande Boucle dei tempi moderni, si sprecano.

Chi sostiene dell’eccessivo peso delle cronometro negli anni Dieci, svirgola l’argomento.

Nel 1982, Bernard Hinault realizzò la sua prima doppietta Giro-Tour: la seconda, con la maglia di La Vie Claire, nell’85, coincise con l’ultimissima vittoria indigena nella corsa più importante del mondo.

La quarta gialla arrivò, mostrando i primi segnali di declino rispetto al triennio d’oro 1979-81, con una gestione da patron della realtà agonistica.

Lo sceriffo bretone si avvalse di un tracciato disegnato sulle sue caratteristiche: a dispetto di frazioni più corte rispetto al solito, il totale di quella edizione fu di 3507 chilometri, Felix Lévitan (il deus ex machina del tempo) offrì 214 chilometri a cronometro, dei quali ben 145 (!) individuali

Quell’edizione ebbe una percentuale del 6,1 per cento di strada percorsa contro l’orologio..

Quando si sostiene, magari nei bar sport televisivi di Stato, che negli anni Novanta le cronometro fossero preponderanti si guarda il dito, non la luna.

Nel 1992, un disegno (inedito: partiva dalla Spagna, toccando sette nazioni europee) dell’era Jean-Marie Leblanc che omaggiava il trattato di Maastricht, il (primo) double di Miguel Indurain giunse su 3978 chilometri di svolgimento.

Dieci tappe sopra i duecento chilometri; a crono 200,5 (137 di esercizio solitario) che rappresentavano il 5 per cento del totale.

Anche nell’epoca oscura del Darth Vader texano, 2002, i chilometri contro il tempo erano molti, 167,5 (109 individuali), ma non quelli del passato (prossimo), su 3278 Km che erano il 5,1 per cento della contesa.

E il discorso è ancora meno a fuoco nell’età del Team Sky (Ineos): addirittura l’anomalo 2012 di Bradley Wiggins, cronometrista di lusso, vide solo il 2,9 per cento con le lancette (101,4 su 3496,9 chilometri).

Froome (e Nibali) vincono, vincevano, poiché più completi in ogni aspetto (potenza, recupero, resistenza organica, capacità tattiche e tecniche, squadra) nel confronto coi rivali: la cronometro rivela (va) e conferma (va) la cilindrata (superiore) del ciclista (campione).

Ai posteri, e agli ascolti tivù e al traffico sui social, la sentenza sul Tour 2020: che tanto sarà salvato dai corridori stessi.

L’arroganza di ASO si sublima pure nell’annuncio de La Course by Le Tour che tornerà a disputarsi sui Campi Elisi: le esibizioni dell’ultimo triennio, sul Colle dell’Izoard, a Le Grand-Bornand e a Pau, erano state troppo avvincenti e spettacolari..

Meglio (..) chiudere le donne nel recinto di una kermesse cartolina: la ricerca spasmodica dell’argent non suggerisce di guardare al di là di un presente continuo.