MARC GIRARDELLI E I BUCHI NERI DEI CINQUE CERCHI

Pechino 2022 al termine della notte ed è già tempo di bilanci: che lasciamo, volentieri, ad altri.
Bob Costas, qualche ora prima dei Giochi, sottolineava che due delle ultime tre rassegne invernali, a Cinque Cerchi, si sono disputate in (non) luoghi dove la libertà è (sempre) vigilata.
Il CIO guarda ai dindi e nulla è meglio delle autocrazie, come Cina e Russia, per passare all’incasso.
Da circa un decennio ci chiediamo quale sia la funzione, reale, dell’evento: al netto delle triangolazioni, dello sportswashing, dell’esibizione politica di muscoli.
Inutile cercare un senso, anche amorale, a qualcosa che pare ormai – strappata al suo ambiente (naturale?) – playstation.
Immaginiamo (..) il futuro degli impianti faraonici, delle piste artificiali, di Yanqing e Zhangjiakou..
Ricordiamo i costi pazzi di Sochi 2014, le Olimpiadi Gazprom, forse il vertice delle dinamiche più oscene del movimento.
I Giochi dove per un’autostrada, che collegava il Mar Nero al Villaggio Olimpico, si spesero 9 miliardi di dollari.
Quella che Garri Kasparov – leggendo le cifre folli (e gli oligarchi coinvolti) – chiese se fosse stata foderata col caviale e l’oro.
Allora liberiamo la fantasia e sogniamo il primo salto (in finale) di Ryoyu Kobayashi, un gesto di un’eleganza neoclassica, a Oberstdorf, laddove appartiene al suo sport, non nel deserto dei Tartari.
E l’ultimo curvone del leggendario Beat Feuz, in discesa, scendendo la Lauberhorn.
Perché sono sempre i campioni a salvare e giustificare queste due settimane, mai viceversa.
Le discipline nobili e storiche, nell’albo d’oro olimpico, esibiscono buchi neri niente male.
Valga, nel biathlon, l’assenza di un successo di Magdalena Forsberg.
O nello sci alpino, una vittoria dell’atleta più grande dell’era moderna, ci perdoni Marcel Hirscher, quella televisiva e del boom.

Marc Girardelli, con il suo carico pesantissimo di cinque Coppe del Mondo generali, incarna ancora oggi l’archetipo massimo dell’atleta polivalente.
Araba Fenice priva di Purgatorio, solo Paradiso e Inferno, in un’odissea con pochissimi eguali.
Il Gira cominciò a gareggiare a sette anni e fin dalle prime competizioni si capì l’eccezionalità del suo talento: per molti osservatori, quel pupo che vinse il Trofeo Topolino e l’Ovo Grand Prix sembrò una profezia felice, ovvero la reincarnazione moderna di Toni Sailer.
Ma il ragazzo di Lustenau, a soli tredici anni, fu al centro di un contenzioso tra la federazione austriaca ed Helmut Girardelli, il babbo di Marc.
Personaggio fumantino, nonchè uomo con idee tecniche differenti dai dirigenti del cosiddetto Wunderteam.
Le posizioni inconciliabili delle due parti portarono a un gesto storico del padre padrone, che chiese (e ottenne) la licenza lussemburghese per le gare del figlio.
Quello strappo, a dir poco epocale, costerà una solitudine cosmica ai Girardelli, nonchè il boicottaggio politico da parte dell’entità che gestisce da sempre (tramite una marionetta con ventriloquo..) il circo bianco.
Con le conseguenze agonistiche facilmente intuibili: budget limitati rispetto ai professionisti di Stato, tracciature e preparazioni delle piste sfavorevoli, calendari assassini per gli all around.
“Ero un traditore della patria.”

Papà Helmut scelse la libertà del figlio, consapevole che quello schiaffo sarebbe stato pagato negli anni, ma dimostrò alla perfezione un teorema (scomodo): l’inutilità a qualsiasi livello dei federali, nosferatu che promuovono soprattutto se stessi e il carrozzone parassita che li giustifica.
E sorvoliamo sull’assenza di proposte (visto che nonno Girardelli crebbe a Scurelle, in Valsugana) della FISI dell’epoca, evidentemente obnubliata dalla sbornia della Valanga Azzurra.
A diciassette anni apparì alla Coppa del Mondo (Carmelo Bene docet) arrivando secondo nello speciale di Wengen, tra Bojan Krizaj e il mammasantissima Ingemar Stenmark: era il 1981 e sembrò imminente l’esplosione.


La vernice vittoriosa, sempre tra i pali stretti, a casa di Ingo in quel di Gallivare.
Ma le vicende del Gira cominciarono a ricalcare l’andamento di un sismografo impazzito.
Una lista, in rigoroso ordine cronologico, illustrerebbe meglio le vicissitudini del favoloso Marc.
Quattordici (!) interventi chirurgici alle ginocchia: il primo, nel 1982, effettuato da un luminare del settore (il dottore Richard Steadman) che predisse difficoltà future del nostro a camminare..
Dopo il secondo, si riscontrò una disabilità del quindici per cento al ginocchio sinistro.
Eppure, puntualmente, tornò ogni volta mosso da una determinazione feroce.
Realizzò tutte le promesse tramutandosi in un vincente onnivoro.
Trovò un contraltare generazionale perfetto in Pirmin Zurbriggen, l’elvetico con il quale divise il possesso della coppa di cristallo, e un avversario antitetico in Alberto Tomba, valentinorossi dei Novanta.
La stagione 1989 fu il suo capolavoro: vinse in tutte e cinque le specialità, record poi eguagliato dal solo Bode Miller, e dominò le discese monumento come Streif e Lauberhorn.

La singolarità di questo campione risiedette in un particolare che modificò le prospettive: come affermò il grande Rolly Marchi, destabilizzando i cortigiani dell’Alberto nazionale, Girardelli fu il fuoriclasse più naturale di tutti.
Al contrario degli Hermann Maier e dei Tomba, che furono fenomenali grazie al loro fisico michelangelesco, il lussemburghese lo fu a dispetto di quel corpo martoriato dalla sfortuna.
Perchè vantò coordinazione motoria e sensibilità tecnica di un altro pianeta, un caso di riprogrammazione istintiva delle proprie virtù psicofisiche.
Per comprendere l’eccezionalità del soggetto bastava assistere ai suoi allenamenti, all’alba, stakanovisti e spartani: Helmut e Mark a fare tutto, prelevando il materiale da un pullmino anonimo, niente staff personale e posse al seguito.


Nel dicembre ’89 al Sestriere il momento più tremendo, quando una caduta in SuperG lo portò a un passo da diventare paraplegico.
Il de profundis cantato dai media si spense l’anno dopo, con l’ennesimo ritorno vincente e la quarta Coppa.
Memorabile il suo dominio nello slalom di Kitzbuhel ’91: in condizioni difficili di neve, sapone, scese – in pieno controllo – con quello stile peculiare.
Agilità e potenza.
Piedi (intelligenti) e senso della velocità.
Sempre a Kitz, ma sulla Streif, il numero da circo nella libera del ’94: alla Steilhang cadde sul fianco destro, in un attimo (felino) si rialzò e proseguì.
Finì secondo dietro Patrick Ortlieb.

Non ebbe mai la soddisfazione dell’oro olimpico, saltò due edizioni per problemi burocratici, perdendo sempre in circostanze sfavorevoli: la scelta del numero di partenza sbagliato, nella discesa di Lillehammer 1994, per esempio.
Due anni prima, ad Albertville nel gigante, scontro titanico con Tomba.
L’epilogo, serratissimo, fu magnifico.
Mario Cotelli catodizzato, nell’approfondimento della seconda manche, rintracciò i 32 centesimi di differenza tra i due assi.
L’Alberto, in ritardo fino alle ultime porte, lo superò nel piano per un evidente divario di performance dei materiali utilizzati.
La cambiale che pagarono i Girardelli nell’affrontare gli squadroni.
Certe considerazioni tecniche dovrebbero essere ribadite a ogni rassegna a cinque cerchi.
Tanto per non far passare l’Hans Peter Buraas di turno (ovvero il vincitore di una lotteria) come un Gustav Thoeni.
Prima del crepuscolo sportivo il Gira fece il pokerissimo, respingendo l’assalto di Kjetil Andre Aamodt alla sua maniera: corse le ultime otto gare della stagione col crociato del ginocchio destro a pezzi, ribadendo una volontà e una durezza mentale spaventose.
Era quello che, all’aeroporto, faceva suonare i metal detector per le placche metalliche che si portava nel corpo..
L’addio nel 1997 fu all’agonismo, certamente non allo sci: come un delfino che nuota nell’acqua, Mark continua a sciare esprimendo una passione totale.
Sulle ginocchia, quattordici cicatrici ci ricordano l’amore (folle) di questo grandissimo per lo sport della neve.
Se le Pechino passano, il Girardelli resta, per sempre.