Riempiamo taccuini, a volte immaginari, di spunti.
Siccome i pallini sono un termine troppo giordaniano, e Mister Pressing molti non sanno (per una questione generazionale) chi fosse, questi telegrammi sono origami persi nella rete.
Un po’ cinici, non sempre pratici, poco allineati.
1
38 pari.
I punti vinti da Denis Shapovalov e Novak Djokovic nel set chiave, il primo, del match più importante di Wimbledon.
Era una semifinale.
2
Il canadese, balisticamente è – con un Vigorelli di vantaggio – il colpitore più talentuoso della sua covata: quella che è Next da cinque anni, forse dieci.
Alzo zero, a tutto braccio, in anticipo, manda il numero uno sul cornicione (tattico) dell’incontro.
Quando serve per vincere il parziale, Shapo sbaglia un diritto (comodo) per andare a setpoint: lì, il serbo chiude la serranda.
Game over.
3
Nole sbaglia una (!) scelta tattica – una specie di palla corta – in quell’ora (fondamentale per il torneo).
Il resto lo spiegherà agli spettatori (ignari?) della finale.
4
Che approccia male: due doppi falli.
La battuta – piano piano – tornerà la solita (chirurgica e con una seconda che è – talvolta – una prima bis), il diritto rimarrà altalenante.
Ma contro Matteo Berrettini sapeva che, a dispetto di quella impugnatura, che lo fa soffrire con le variazioni (altrui) sulla sua destra, non sarebbe stato un problema.
Perché il Berretta – un (piccolo) Del Po – non ha il rovescio lungolinea per impiensierirlo.
5
Così, malgrado il tie-break smarrito, Djokovic – un calcolatore tennistico senza eguali – sa bene che la partita dipenderà solo da lui.
Col passare della contesa, Nole legge sempre meglio il servizio (martellante) dell’italiano: gli scambi si allungano, Berrettini viene esposto a rete, dove il serbo scende (ogni tanto) per togliere ulteriori riferimenti al romano.
6
Il Grande Slam 2021 di Djokovic rappresenterebbe..
L’evento mediatico sportivo di questo decennio.
I chiodi sulla bara della storia del gioco.
Entrambe le risposte sono giuste.
7
Il Djokovic del 2011, quello fino a Wimby, nel tre su cinque, ammazzerebbe il Nole di quest’anno.
Lo corcherebbe di tennis orizzontale: buttandolo (sic) sui teloni oppure obbligandolo a improbabili sortite offensive.
8
Un passante in diagonale contro Berrettini, scivolando a sinistra, dalla traiettoria estrema, la polaroid dell’eccezionalità – atletica – del despota.
La spaccata ci ha ricordato Jiri Holecek..
9
Fossimo Nole (sic), dopo aver inanellato Tokyo e New York, faremmo bye bye con la manina in mondovisione.
10
Fossimo invece Marian Vajda (..), consiglieremmo a Djokovic l’abiura olimpica.
Perché, verso Flushing Meadows, la (di) gestione di Tokyo sarà un problema.
11
Oltre il Nole contro Shapo citato, match di questa Wimbledon (un tipo, come si dice alle donne bruttine) il primo turno tra Nick Kyrgios e Ugo Humbert.
Uno spettacolo, in due (tre) tappe: Giove Pluvio decide per il Campo Centrale.
Almeno Lui esiste e ama il tennis proattivo.
12
L’aussie, al terzo turno, incontra Félix Auger-Aliassime.
Per un set, prende in giro (e a schiaffoni) il canadese, poi si infortuna agli addominali.
Non una sorpresa, considerando il sovrappeso di Nick Mitraglia, che prima dell’incontro chiedeva una birra.
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Se volete un bignami del robotennis della Next Generation, visionate l’ottavo tra Auger-Aliassime e Sasha Zverev (20 doppi falli in 5 set).
La dinamiche sono sempre le stesse: chi sta sotto (..) colpisce meglio, a chi è in vantaggio viene il braccino.
Servizi a 220 chilometri orari sulla riga, diritti scentrati – telaiate.. – coi piedi a due metri dalla riga di fondo.
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Il panico sotto pressione sembra la cifra complessiva di Zverev, Auger, Shapovalov, etc.
In America si dice “choking”.
15
Ashleigh Barty, in attesa che si ripresentino le avversarie (del suo rango: Naomi Osaka, Bianca Andreescu, Iga Swiatek), stramerita il piatto dell’All England Club.
Australiana (aborigena) di nascita e dna tennistico, con quel back avvelenato, il rovescio lungolinea telecomandato, il diritto (quando non sente la tensione..) strettissimo che pare messo con la manina.
Degna di Evonne Goolagong, sul serio: chapeau.
16
A proposito di mano fatata, ottima Wimby per la fantasista Ons Jabeur.
Che, opposta a Garbine Muguruza, vince al terzo turno fornendoci un highlight mai visto (prima): si scarica della tensione, a due punti dalla vittoria, vomitando tra un giudice di linea e l’altro.
17
Per chiunque non l’avesse incrociato, lo studio statistico, vent’anni di omologazione a Wimbledon spiegati con due percentuali.
2001, ultimo anno con il taglio a 4 millimetri e la vecchia mistura di erba, 37 % di serve and volley giocati.
2021, 4 % di serve and volley giocati.
18
Sbigottiti in tanti di fronte a Tadej Pogacar, durante la tappa (l’ottava) che finiva a Le Grand Bornard.
Lo sloveno, dopo la cronometro vinta (dominata) a Laval, partiva sul Col de Romme e spianava la Colombiere.
Trenta chilometri, sotto la pioggia, da (nuovo) patron.
19
Alla Vuelta 2019 fece – più o meno – lo stesso numero, verso Plataforma de Gredos: aveva ancora vent’anni.
Nel 2021, alla Tirreno-Adriatico, nella (sensazionale) Castellalto-Castelfidardo, rincorrendo Mathieu van der Poel e distanziando Wout Van Aert (sempre i soliti sospetti..), produsse 380 watt di media (per trenta minuti..) negli ultimi 18 chilometri (senza un metro di pianura) della frazione.
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A noi, così potente e versatile, Pogacar ricorda il primissimo Laurent Fignon.
Che a nemmeno 24 anni, nel 1984, scherzò il vecchio capitano Bernard Hinault.
Il cambio di ritmo, il rapportone spinto (a calci) sono quelli.
21
Van Aert vince la Sorge-Malaucène, con il doppio passaggio sul Mont Ventoux, sorvolando elegantissimo il monte di Petrarca.
Bello ed efficace quanto Rik Van Steenbergen, con un non so che di Gianni Bugno.
Multidisciplinare, watt a palla, salita, pianura, sprint: sul circuito di Fuji, il 24, il faro è belga.
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Nell’ultimo giro sul Monte Calvo, fra gli uomini di classifica, Jonas Vingegaard stacca – di forza (agile) – Pogacar.
L’epilogo del Tour ci spiegherà meglio chi è il danese e quali sono le sue prospettive.
E definirà con maggiori sfumature anche il profilo dello sloveno in giallo: l’abbiamo fatto con tutti (i tourannosauri).
23
I fuoriclasse nascondono meglio, della concorrenza, i loro vuoti di sceneggiatura.
Allora è caccia all’avversario giusto e ai difetti (la canicola non pare amica di Taddeo..) del mostro.
Ne va dell’interesse per il Tour stesso: nulla è più monotono del tourannosauro.
Il Merckxismo è stato epico col senno di poi: ai tempi, era noia sartriana.
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Succede, nell’evo del wikipedismo e del feticismo per i primati, che Mark Cavendish eguagli le vittorie di tappa alla Grande Boucle di Eddy Merckx.
Invece che celebrare Cannonball per quello che è, ovvero uno degli sprinter più forti di sempre, un fuoriclasse, partono i distinguo (..) per difendere (?) la statura del Cannibale.
25
Gli agonisti da divano sottolineano che Cav è solo (..) un velocista.
Facendo capire di non aver compreso un tubo del ciclismo: lo sport professionistico che riassume quasi tutte le discipline dell’atletica leggera in un plotone, o su una pista.
Brevilinei con longilinei, atleti di 80 chili gomito a gomito con altri di 55, acrobati della bici insieme a fachiri da sei ore in sella.
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Come se i “cento metri di buio morale” – oggi quasi dieci chilometri (col coltello fra i denti) – non fossero una specialità maledettamente complicata (e pericolosa).
Le posizioni, i trenini, limare al centimetro la ruota davanti, il gruppo impazzito a sessanta all’ora, i gomiti che si alzano, la lettura dei buchi, le marcature, le cadute, le urla, le testate, l’adrenalina a mille, il 54 per 11 spinto come un motorino.
Vincere 34 volte così, al Tour, è una roba pazzesca.
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Anne van der Breggen si aggiudica, per dispersione, il suo quarto Giro.
Troppo lei e la sua ciurma, il Team SD Worx, per le altre: a Prato Nevoso, seconda frazione e prima in linea della corsa rosa, l’iridata mette già in ghiaccio la vittoria.
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All’ultimo anno della carriera, van der Breggen, viene scortata (anche sul podio finale) da Ashleigh Moolman e Demi Vollering.
Quest’ultima, che nel ’21 ha messo nella gerla Liegi-Bastogne-Liegi e La Course, è l’erede designata: non (solo) della van der Breggen ma, addirittura, di Marianne Vos.
Quell’adattabilità alle salite (lunghe), scoperta in Italia, il fondo, le doti velocistiche, etc.
L’atleta più simile (per prospettive) all’incredibile Vos che ammirammo – intoccabile: il più grande ciclista del ventunesimo secolo? – allo zenit.
29
Tokyo, su un percorso più generoso per i recuperi rispetto alla prova degli uomini, si annuncia un reality tra le quattro olandesi.
Annemiek van Vleuten e van der Breggen, che avrebbero l’interesse comune di far saltare la gara (da lontano), non si amano.
Vollering e la regina Vos, all’ultima recita olimpica, con una tattica accorta potrebbero andare all’oro o a medaglia.
Un pomeriggio giapponese, per le arancioni, a metà fra un en plein e un seppuku..
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Al 68 per cento dei giapponesi, secondo un sondaggio IPSOS, non interessano i Giochi Olimpici.
Un espediente retorico per rimarcare il disastro annunciato di Tokyo: imposto dai dindi e dai contratti capestri del CIO.
Che non ha voluto rischiare, aspettando il 2022 e un ritorno (non voluto) alla vecchia formula: quando entrambi i Giochi, invernali ed estivi, si disputavano nello stesso anno.
Ultima accoppiata, 1992 (Albertville e Barcellona).
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L’Italia di Roberto Mancini si aggiudica da Italia, bella, sporca e cattiva, Euro 2021.
Non corriamo in aiuto del vincitore: non la ritenevamo abbastanza talentuosa da vincere le quattro partite che contano.
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Europei divertenti e mediocri, in linea col momento (down) del calcio di lignaggio, e meritati dalla squadra che è parsa più squadra.
Con un centrocampo di ninnoli modernissimi, una difesa straordinaria (un classico tricolore, compreso il portierone) e la capacità di adattarsi alle difficoltà.
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Evidenti contro l’Austria, nel secondo tempo, e la Spagna (quasi dominante e ipnotica nel palleggio): il bonus Euro ’68 (il successo più fortunoso nella storia della nazionale..), la banda Mancio lo spende in semifinale.
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La finalissima è un deja vu dell’essenza storica di Inghilterra e Italia nel football.
I bianchi, dopo mezz’ora di euforia psicofisica, vengono impacchettati dagli azzurri: la regola più importante dello sport pro di oggi, premia chi gestisce al meglio la pressione dei match clou.
Nell’Italia che soverchia i padroni di casa, terrorizzati dalla prospettiva di perdere (ancora una volta), comandano quelli della Juventus, uno del Chelsea e un altro del PSG.
Gli squadroni dove lo stress (tecnico e agonistico) della Champions League è la regola.
Più Gigio Donnarumma, che a Parigi ci va perché – essendo l’unico fuoriclasse (giovane) della congrega – appartiene (di diritto) a quell’agone.
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L’impresa – di Mancini, del duo ferro e piuma Chiellini e Bonucci, del pensatore Jorginho – è farcela senza attaccanti degni della (nostra) tradizione.
Nell’anno della morte di Paolo Rossi, il trofeo arriva a dispetto di un centravanti sopravvalutato come Ciro Immobile.
Uno dei beneficiati della decadenza della Serie A anni Dieci: una minor league, se paragonata a quello che fu – dagli anni Ottanta per un po’ di lustri – il campionato più importante del mondo.
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A forza di battere la grancassa, ci si convince che la mediocrità sia eccellenza.
Allora, su un quotidiano nazionale, uno scrittore tifoso – un po’ confuso dal suo ruolo – tempo fa sostenne che Andrea Belotti era meglio di Paolino Pulici.
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Il Gallo, che non vale Dario Hubner, gioca in una Serie A che – con quelle regole (che producono più reti) – nel 2020-2021 ha avuto una media di 3.06 gol a incontro.
Quando il sunnominato Pulici, nella stagione 1972-1973, vinse il suo primo (dei tre) titoli di capocannoniere – 17 segnature, ex aequo con Gianni Rivera e Beppe Savoldi – il campionato permetteva 1.87 gol segnati a incontro.
Capiamo l’antifona?
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In nazionale, in quelle ere, non trovarono posto – nelle manifestazioni internazionali – Roberto Pruzzo, Bruno Giordano, Gianluca Vialli, Roberto Mancini (sic), Roberto Baggio.
Trattasi di una crisi del “giuoco”, nelle sue dinamiche postmoderne (la densità, le diagonali, il pressing alto, l’impostazione da dietro, etc.), se la Germania, nel bel mezzo di un cambio generazionale, viene costretta a schierare l’amletico Timo Werner.
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Un attaccante talmente moderno, Timo, che crea spazio per i tagli dei compagni e si sbatte, da non vedere la porta.
Con la stessa maglia di Gerd Muller e Kalle Rumenigge (e Rudi Voeller) faceva impressione.
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Che poi il merito (o la colpa) di tutto ciò è della superdotata Francia.
Una posse punita dalla (loro) tracotanza e dalla Svizzera: anche se Paul Pogba, da mezzala, è un’iradiddio e nei venti minuti di mistral parrebbero imbattibili.
41
Allora diamo il Pallone d’Oro al dominatore e bomber di Euro 2021, il signor Autogol.
11 reti in un torneo: questo si che è un primato.
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Pensierino finale.
Da una parte Wembley, strapieno (con le regole anticovid che si volatilizzano: lo stadio non è un teatro o un cinema, no..), Boris Johnson che fa il pieno di popolarità (quasi al livello delle bugie che spaccia), una folla di invasati, l’inno degli altri fischiato.
I palloni di Danimarca-Inghilterra che, coi padroni di casa avanti, non ritornano più.
Il rigore (simulazione) di Raheem Sterling, pieno spirito del ’66.
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Dall’altra il Maracana, la curiosa Copa America voluta da Jair Bolsonaro, nel quasi deserto, coi test sanitari finti (calciatori e spettatori).
Argentina-Brasile è stata un partita di calci, non di calcio, una caccia all’uomo qua e là (soprattutto Neymar), un arbitro da operetta, una robaccia da Cile ’62.
Dai che, a novembre e dicembre 2022, in Qatar, questa pantomima deflagra.
Vero?
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Poche volte ricordiamo NBA Finals tra sistemi di gioco (non cultura, che è la stessa: degli Spurs..) così differenti.
Forse Pistons-Lakers nel 2004.
Ma quella volta fu pure uno scontro ideologico (sic).
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Rispetto al loro roster, i Suns sono il combo più qualitativo della lega.
I Bucks, il più quantitativo.
Phoenix è pensata per giocare nel flusso, Milwaukee martella sull’inerzia della partita.
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Il salto di livello, nel Wisconsin, è arrivato con Jrue Holiday.
Un 2-Way che riempie (copre e nasconde) i buchi dei compagni, soprattutto di Giannis Antetokounmpo e Khris Middleton.
Un piccolo Sidney Moncrief.
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Il terzo uomo è fondamentale pure per quelli di The Valley.
Se innesti offensivamente DeAndre Ayton, che è molto più forte (tecnicamente) di quel che si vede, vanno in ritmo tutti e smonti la difesa di Mike Budenholzer.
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Gara5 non sarà solo decisiva per la serie, pivotal game se ne esiste uno, ma per la carriera di Chris Paul e del freak greco: come sarà vista (dai wikipedisti) nel futuro.
Essendo italiani, diciamo che il metro arbitrale sposterà il giochino.
Più permetti fisicità, meglio sarà per i Bucks.
Più fischi i contatti, soprattutto nei cambi sui pick and roll, meno problemi tattici ai Suns.