L’ANNO CHE LEW HOAD FU INGIOCABILE

Nello sport, come nella vita, nulla si crea e tutto si trasforma; ma ci sono momenti che modificano per sempre la visione e l’approccio di un mondo. Quell’attimo, quando accade, polverizza il nostro concetto del tempo: pare infinito, malgrado duri lo spazio di una breve stagione, perchè verrà cristalizzato ad libitum e rivissuto ogni volta con un fervore quasi mistico. Lewis Hoad fu l’inconsapevole rivoluzionario che accelerò definitivamente le sorti del tennis: prendendo spunto dal serve and forehand di Jack Kramer e proiettando il gioco in una dimensione sconosciuta. Lew, con il suo stile, cominciò l’era moderna dei gesti bianchi.

Bello, biondo, il collo taurino su un corpo da boxeur o alla Valentino Mazzola: il viso da attore oggi ne avrebbe fatto un divo, invece divenne solo (..) il più forte atleta della sua epoca.

Hoad fu tellurico nella vita e sul campo, inscindibile nell’imporre il suo ascendente sregolato ad amici, amanti, compagni, avversari.

Non interpretò la parte, la inventò: come il Marlon Brando di “On the waterfront”, andò oltre la macchina attoriale e modificò la sua arte.

Il Terry Malloy aussie ebbe il suo alter ego in Ken Rosewall: scorpioni nati pochi giorni l’uno dall’altro, ridisegnarono i confini geografici e tecnici.

Gli Whiz Kids conclusero l’egemonia americana e cominciarono quella down under.

Il bis nella Davis, nel 1953, suggellò il passaggio di consegne tra le due scuole: Hoad, diciannovenne, soverchiò il grande Tony Trabert (13-11, 6-3, 3-6, 2-6, 7-5) con una dimostrazione di potenza mai ammirata prima.

Se Muscles fu geometria cartesiana, tocco e meraviglia racchiusi in un corpicino esile e leggero, Hoad trasfigurò i gesti: portò la violenza sui settantotto per trentasei del campo.

Lo fece con l’arroganza e l’energia di un supereroe di Stan Lee, una specie di Thor.

Quel polso d’acciaio, degno di Ercole, consentì al biondo una dimensione diversa dell’esibizione agonistica.

Un assalto all’arma bianca, un’aggressione, concepita sulla forza e la profondità di palla.

Antesignano dell’all around game, per Lew il tennis divenne un assolo di Max Roach: improvvisò colpi impensabili fino a quel momento, innalzando il ritmo e l’atletismo della contesa.

“E’ stato l’unico che, se avessi giocato il mio migliore tennis, mi avrebbe comunque battuto.

Penso che il suo gioco sia stato il meglio di sempre. Meglio del mio. Era capace di creare colpi come nessun altro.

Le due volée erano grandiose, il gioco aereo incredibile. Ha avuto il talento mentale e fisico più innato della storia.”

(Pancho Gonzales)

Per tutti i colleghi, compresi Jack Kramer e Rod Laver, il livello raggiunto da Hoad nelle recite più ispirate non consentì repliche: all’apice della carriera fu ingiocabile.

Non ebbe nemmeno bisogno di strategie tattiche per dominare, come se considerasse l’esegesi del gioco figlia dell’inferiorità genetica altrui.

Il piccolo Cesare australiano impose anche la propria personalità, lontano epidermicamente dallo stile nobiliare e snob dei club esclusivi, portò la strada (quella di Jack Kerouac) nella competizione.

Entrò nella testa dell’avversario dialogando con il pubblico, bisticciando con gli arbitri e i giudici di linea.

Non lo fu mai alla Jimmy Connors, per rubare (..) punti e partite, ma volle sempre e comunque essere il mattatore sul proscenio.

Sequestrò il globo per una stagione intera, il 1956: fece tre quarti di Grande Slam e giunse all’epilogo degli US Open contro Ken, il gemello diverso.

Perse male una partita che avrebbe dovuto e potuto vincere, opposto al fratellino che accudì sempre: anche nelle serate – infinite – nei night, quando si esaltava il Terry Malloy che lo abitò.

La leggenda racconta che una volta, a Soho, tre tizi minacciarono Rosewall: i poveretti furono stesi senza pietà dai pugni di quell’energumeno.

Hoad passò professionista un anno dopo l’amico, nel 1958, tanto per vincere nuovamente Wimbledon e la Coppa Davis.

Il Lew originale, malgrado la classe, non si rivide più: cominciò ad annoiarsi, con la pigrizia tipica dei superdotati, e iniziò a interessarsi a cose più piacevoli (Bacco e Venere), penalizzato anche da dolori sempre più persistenti alla colonna vertebrale.

Alloggiò ciononostante nel circuito, ancora ultratrentenne, con quel carisma mostruoso: Adriano Panatta, nel suo libro, lo descrive come un extraterrestre.

“Lo incontrai diverse volte, nonostante la differenza di età. Lew era sui trentacinque, la schiena a pezzi, io stavo appena cominciando. Lo battevo, ben sapendo che la cosa in sè non aveva significato alcuno…

Lo guardai entrare in campo e…

Non so dire perchè, ma già dal suo modo di muoversi, di gettare un’occhiata al pubblico, di fare un cenno con la testa a chi lo applaudiva con più calore…

Beh, mi ritrovai a pensare di avere di fronte un maestro, uno che sapeva giocare terribilmente bene.

Aveva l’aria del padrone, del marchese in visita ai suoi territori. Il campo confermò quelle sensazioni, Lew giocava davvero un tennis di livello superiore.

E’ raro vincere un match e sentire di dover ringraziare l’avversario per aver giocato con te. Ma così è stato…”

E’ proprio Adriano a paragonarlo a Roger Federer: completamente diversi nell’aspetto e nell’attitudine, i due incarnano il non plus ultra del genio nel loro dinamismo creativo, nella cinetica del gesto puro.

E’ la naturalezza biomeccanica che li accomuna, distanziandoli dagli altri Immortali.

L’inventore del power tennis ebbe una vita avventurosa e felice, amò una donna alla follia (Jenny Staley) e fu ricambiato.

Visse l’ultima fase della sua vicenda nel caldo implacabile di Fuengirola: al solito, ahi lui, precedette l’altro Apprendista Stregone (si spera ancora per tanti anni) anche nella partita a scacchi finale.

Protagonista (?) di un irriverente sketch pythoniano oppure (s)oggetto di culto di mille storie tramandate a voce dagli appassionati, il fantasma di Lewis Hoad incombe sul mondo del tennis contemporaneo.

Ignaro e beota (nell’esposizione ipertrofica attuale) a riguardo di chi ne costruì la mitologia.

Pubblicato da Indiscreto il 1 maggio 2010