Croce e delizia degli amanti della palla con estro, anche di quelli che si sentono i depositari del Santo Graal di James Naismith, inesistente nel gioco più post moderno di tutti, l’NBA ricomincia dalla fine.
Dall’epilogo dell’ultima dinastia, quella dei Golden State Warriors, che in appena un lustro ha modificato radicalmente la cultura tecnica e tattica del giocattolo, e che apre scenari inediti.
Addirittura la prospettiva di un anello ai Clippers, la franchigia più simile a una battuta di Groucho Marx nell’intero sport professionistico americano: roba da Armageddon alle porte, ancor più della presenza (minacciosa) dell’anidride carbonica nell’atmosfera terrestre.
Silverland, a dispetto della crisi cinese, per magnificare l’essenza ordoliberista della missione: diffondere il verbo del basket, diventando ricchissimi e famosissimi.
Perché alla lega più importante dell’intero sport, oltre che traino e spettacolo integrato, si deve la fortuna del giochino stesso.
Che dipese da una singola idea regolamentare di Danny Biasone: senza l’invenzione del proprietario dei Syracuse Nationals (poi diventati Philadelphia 76ers), ovvero i 24 secondi come limite di tempo per l’azione di tiro, la pallacanestro – forse – non esisterebbe più.
Vorremmo spiegare l’NBA agli adulti, che fingono di averla vista e compresa, ma ci limitiamo a poche (e doverose) citazioni.
Così, nel redigere una lista semiseria di semidei con lo Spalding (che prima del 1983 era Wilson) in mano, ricordiamo le (due) chiavi fondamentali per spiegarne l’evoluzione.
Lo chassis contemporaneo è anche e soprattutto una retroazione dell’American Basketball Association, il campionato dei fuorilegge che sfidò l’NBA tra (fine) anni Sessanta e (metà) Settanta.
Il tiro da tre (creato da Howard Hobson e introdotto dalla famigerata ABL di Abe Saperstein), l’uno contro uno creativo da strada, l’arancia (e il potere) nelle mani degli esterni.
Più jazz (oggi hip hop), meno sinfonia.
Aleph e centro di gravità permanente di ogni cosa accaduta, in sessant’anni di storia mai lineare, la serie finale 1988 tra Lakers e Pistons – di una bellezza folgorante – ci presenta il futuro nell’armamentario esposto dai Bad Boys di Chuck Daly.
Quei Detroit Pistons esemplificarono il concetto collettivo spartiacque, dell’NBA e della pallacanestro di ogni luogo.
L’accento sulle trappole difensive, le rotazioni (dalla panca) lunghe, gli specialisti; i piccoli che comandavano la rumba e i lunghi che creavano gli spazi per loro (uscendo pure dall’area pitturata).
Una rivoluzione permanente.
Nello stendere i quintetti di ogni decennio, dall’era dei Celtics di Red Auerbach e Bill Russell in poi, abbiamo inserito – doverosamente – l’ABA degli esordi e quella a fine corsa, nonché un piccolo “What If” di suggestione ucronica: un nastro di nomi, con una carriera devastata dagli eventi (fato o autodistruzione..), che mostrarono un potenziale simile a quello dei mammasantissima da Hall of Fame. Siamo anche riusciti a non includere Grant Hill nell’elenco: brutta cosa, le classifiche.
1960
Bill Russell (WILT CHAMBERLAIN), Bob Pettit, Elgin Baylor, Jerry West, Oscar Robertson
1970
LEW ALCINDOR / KAREEM ABDUL-JABBAR, Elvin Hayes, Rick Barry, Hondo Havlicek, Clyde Frazier
1980
Kareem Abdul-Jabbar (Moses Malone), Kevin McHale, LARRY BIRD (Julius Erving), Michael Jordan, Magic Johnson
1990
Hakeem Olajuwon, Karl Malone, Scottie Pippen, MICHAEL JORDAN, John Stockton
2000
Shaquille O’Neal, TIM DUNCAN, LeBron James (Tracy McGrady), Kobe Bryant, Jason Kidd
2010
Anthony Davis, LEBRON JAMES, Kevin Durant, Stephen Curry, Chris Paul
Early ABA
Mel Daniels, Connie Hawkins, ROGER BROWN (Rick Barry), Charlie Scott, Louie Dampier
Late ABA
Artis Gilmore, George McGinnis, JULIUS ERVING, David Thompson, Warren Jabali
WHAT IF…
1950 Bill Spivey
1960 Maurice Stokes
1970 Marvin Barnes
1980 Michael Ray Richardson
1990 Len Bias
2000 Penny Hardaway
2010 Brandon Roy