SORELLA SARA. MEDVEDEV, IL NUMERO UNO NON UFFICIALE

Avete voglia a fare ricerca sullo sport, tecnica e storia, ad approfondirlo per quel che è (stato): uno guarda lo spazio (un po’ lunare) dell’editoria specialistica e si imbatte in una sequenza di feuilleton.

A fianco del libro epico, su un argomento usa e getta, il selfie scritto delle biografie dei campioni pare la moda del momento.

Da “Open” in poi, i biopic come le locuste. 

Tutti, in un’epoca dove la sovraesposizione – l’esserci, sempre e comunque – sembra l’unica regola, raccontano il proprio romanzo.

Anche se hai solo vent’anni (!), come Simona Quadarella, e dovresti fregartene dell’autocelebrazione: nuotare, vincere l’oro dei 1500 a Gwangju, basta a se stesso.

Invece vendersi a pezzettini, oltre lo sport (che diventa solo un mezzo per veicolare altro), è ormai fondamentale.

Così facendo, con queste dinamiche da Cronaca Vera, si comprendono meglio le smargiassate del giornalismo tabloid.

Federica Pellegrini – una fuoriclasse – va a medaglia?

La più grande sportiva italiana di sempre!

Chiunque, faticando, a mo’ di salmone, provi a storicizzare (e dunque a criticare) l’affermazione, diventa un paria.

Ci sovviene sempre, sull’argomento, Sara Simeoni; una che fu, paragonandola alla (formidabile) Pellegrini, la Katie Ledecky del suo evo.


Sara Simeoni verso l’oro olimpico in quel di Mosca (1980).

Una generazione di fenomeni, che porto’ il salto in alto femminile a essere quello che è oggi: il concorso numero uno dell’atletica donne.

La veronese si imbattè in Rosemarie Ackermann, la nemica (amatissima) per eccellenza, Ulrike Meyfarth, Tamara Bykova, Urszula Kielan..

Prima dell’arrivo della straordinaria Stefka Kostadinova, il plotoncino lo guidava la Simeoni: dal 1977, per un lustro, la migliore del mondo per continuità (235 gare vinte..) e performance ad alto livello.

Persino declinante, a trentun anni, in quel di Los Angeles ’84, ando’ ancora a medaglia alle Olimpiadi, mostrando la classe agonistica delle Grandissime.


Al Palazzone di San Siro, dove Simeoni (nel ’78) vinse gli Europei indoor.

Chiedersi chi sono state Sara Simeoni o Novella Calligaris, una che – eoni fa – smise col nuoto all’età della Quadarella, forse farebbe meglio al pudore di certe opinioni.

L’avevamo capito durante l’estate americana..

L’avevamo capito durante l’estate americana ma il Mille di Shanghai, senza smarrire un parziale e bastonando Sascha Zverev in finalissima (6/4 6/1), ce lo ricorda: da agosto, il migliore tennista del circuito ATP è Daniil Medvedev.

Curioso che un evento fisiologico, generazionale, ovvero un ventitreenne che si impone sulla scena, nel tennis egemonizzato da quei tre là, sia accolto con sorpresa.

Dall’inizio del Federerismo, nell’estate 2003, per la prima volta, il re della giungla non si chiama Roger, Rafa o Nole.

Al tempo pure il numero uno di Andy Murray, conquistato alle ATP Finals 2016, sembrò più un premio alla carriera piuttosto che il consolidamento di una realtà tecnica.

Daniil Medvedev, nel secondo turno di Shanghai contro Cameron Norrie (6/3 6/1), e il suo fenomenale rovescio bimane.

In quel periodo, i tre mostri erano in difficoltà, il Novak Djokovic calante di quei mesi, o addirittura parevano all’ammazzacaffé (Nadal, crepuscolare, e Federer infortunato). 

La Russia ci consente di inserire un asterisco nella saga infinita: Nikolaj Davydenko, al tramonto degli anni Zero.

Non che l’ucraino (..) di Volgograd fosse così distante, in alcuni gesti, dal Medvedev irresistibile della seconda metà del 2019.

Un gioco di aggressione da fondo campo, basato sul ritmo e gli angoli: un Andre Agassi senza il carisma, e la frenesia, del kid di Las Vegas.

Davydenko, classe 1981, andrebbe benissimo per spiegare quanto sia cretina la leggenda metropolitana dell’era debole, nel bel mezzo della dittatura del Re giovane.

Il russo, che (come gli altri..) ebbe a mo’ di nemesi il tennis ferro e piuma di Federer, nel post US Open 2009 parve in uno stato di grazia.

Vinse in Malesia e poi – proprio a Shanghai – realizzò un filotto impressionante: sconfisse, uno dietro l’altro, Fernando Gonzalez, Radek Stepanek, Novak Djokovic e – in finale – Rafa Nadal (7/6 6/3).

Quel Davydenko, sul cemento, giocava a ping pong: anticipava i colpi, imponendo velocità proibitive allo scambio.

Al primo Masters londinese, dopo aver (ri) battuto il Minotauro (6/1 7/6) nel gironcino, sfatò il tabu col Maestro elvetico dopo tredici stop: un incontro strepitoso, anche con gli occhi di oggi (6/2 4/6 7/5).

La domenica, Juan Martin del Potro non fu un problema (6/3 6/4): rimane ancora l’unico russo a fregiarsi di quel titolo.

Il sei delle classifiche, all’incipit del 2010, non era fermabile nemmeno dall’aristocrazia.

All’Open del Qatar, dopo l’uno-due con Roger nella semi (6/4 6/4) e Rafa in finale (0/6 7/6 6/4, lo spagnolo crollò in un match dalle dinamiche assurde..), Nikolaj confermò il ruolo di pesce pilota e favorito degli Australian Open.

A Melbourne, ai quarti, il duello con il Re svizzero fu sportivamente drammatico per il russo.

Che, per un set e mezzo, sballottò a piacimento Federer dietro la riga di fondo.

Nel momentum, avanti 6/2, col 4/1 sulla racchetta nel secondo, la play station (..) di Davydenko andò in corto circuito su una palla, banale (non per lui, mediocre al volo), nei pressi della rete.

Roger ribaltò la contesa, con l’avversario fuori sincrono (sotto choc) in un contesto folle, mai (più) visto: quel pomeriggio maledetto, Kolya non solo smarrì lo Slam (6/2 3/6 0/6 5/7) ma il resto della sua carriera. 

Le circostanze del (recente) dominio di Medvedev fanno intravedere altro: la fine di un’età forse irripetibile (nel bene e nel male..) del gioco.

E la maturazione di un giocatore del quale, troppe volte, abbiamo sottovalutato il suo potenziale.


A Cincinnati, in semifinale, battendo Novak Djokovic (3/6 6/3 6/3) in rimonta, Medvedev annuncia il suo momento d’oro.

Poiché, stilisticamente sghembo quanto efficace, alle doti eccelse di fondocampista (quelle sì, seppure più meciresche nelle variazioni di ritmo, simili al buon Davydenko), il nostro unisce un servizio vario e potente e una lucidità tattica – a New York, claudicante, opposto a Stan Wawrinka nei quarti (7/6 6/3 3/6 6/1) fu impressionante – da mammasantissima.

Più che all’O2 Arena, o a Bercy, in questo epilogo stagionale, il moscovita, al pari di uno Stefanos Tsitsipas, vorrà confermare la tendenza nel 2020.

Il cambio della guardia o giù di lì?