FEDERER-DJOKOVIC, QUESTA ESTATE A CHURCH ROAD, E IL LUOGO COMUNE

Tempo di New York, quarto major tennistico dell’anno, e torniamo sul luogo del delitto. Era il 14 luglio scorso, in Francia si festeggiava la presa della Bastiglia, e la finalissima Federer-Djokovic ci intrattenne con le emozioni, fortissime, che solo lo sport professionistico di alto lignaggio ci può regalare (pagando). Un incontro definito, in una sospensione eterna del giudizio, intrappolati in un presente continuo, il più bello di sempre. Impossibile comprendere il motivo della sentenza (digitale), non essendoci le basi per formularla: le conoscenze storiche e tecniche del gioco, escludendo a priori la terza (quella scientifica: troppo specifica per gli strilloni), limiterebbero l’enfasi con la quale – ogni volta – si vende se stessi e la notizia nella cornice. Il giornalismo tabloid, in fondo, si riduce a cavalcare l’onda emotiva e a un selfie scritto.

Novak Djokovic e Roger Federer verso le due del pomeriggio del 14 luglio 2019.
Novak Djokovic e Roger Federer verso le due del pomeriggio del 14 luglio 2019.

Gran bella partita quella, non una sorpresa, essendo la rivalità tra i due, negli incroci con il terzo (..) incomodo, esteticamente la più appagante. Poichè si affrontano il più grande giocatore qualitativo dell’era Open, e forse di sempre, il Re svizzero, e uno dei più forti quantitativi della storia, il despota serbo. Una saga vissuta sul tennis creativo, a tutto campo, neoclassico, di Federer: una vita di controbalzo, a far ping pong con una racchetta simil Stradivari, piuma e ferro, e a nascondere la palla all’avversario. E sul tennis percentuale post moderno di Djokovic: un’esistenza fatta di risposte profonde, di anticipi, logiche geometriche e un bordone orizzontale, di pressione continua da dietro, che strema l’oppositore. Wimbledon zerodiciannove, la quinta di Nole (7-6 1-6 7-6 4-6 13-12), ha il fascino estremo di un gioco che pare inventato dal diavolo in persona. Vince di giustezza chi aspetta il momentum, e la fortuna, resistendo suo malgrado (di testa); perde – da divinità umana – quello che ha comandato, stupendo anche l’altro, larghi tratti del match.

Entrambi, nelle contese passate, hanno giocato meglio, soprattutto l’attuale numero uno delle classifiche: nella finale del 2014 (il bis del Djoker: 6-7 6-4 7-6 5-7 6-4), per esempio. A Church Road, un mese e qualche settimana fa, dopo il primo parziale (decisivo, col senno di poi e di prima..) RoboNole ha dovuto arretrare il baricentro, lasciando il campo e il pallino all’elvetico. Che, a pochi dì dai trentotto anni, è stato Federerissimo ancora una volta: alzo zero, a rischio massimo, il Mago Merlino si è prodotto in un’infinità di variazioni balistiche, sorretto dal solito servizio regale.

 Il Djoker, con la quinta coppa dei Championships, in una delle sue imitazioni preferite: quella di Alcides Ghiggia.
Il Djoker, con la quinta coppa dei Championships, in una delle sue imitazioni preferite: quella di Alcides Ghiggia.

Quarantaquattro vincenti di diritto, ottantanove totali (settantasei errori non forzati). Undici serve and volley puri (dieci punti ricavati), settantatre discese a rete (cinquantasette punti) e sessantatre approcci (cinquanta vinti, il 79 per cento). Diciannove su ventotto al volo, con cinque su sei nello smash, e centottantotto (!) slice e chip di rovescio più undici di forehand. Nole è stato rosolato di tagli e di “velenose” per quasi cinque ore. L’inferiorità tecnica (e tattica) del fenomeno di Belgrado si evince ancora di più dalle sue cifre: appena cinquantuno winners e sessantasei unforced errors, il dato più inconsueto per lui (regolarista eccelso).

Nemmeno un S&V in cinque set, trentacinque discese a rete (ventitre punti), ventisei approcci (diciassette vinti, il 66 per cento). Un disagio agonistico rappresentato anche dallo zero su sette nei lob e dai quarantadue slice chip di backhand e quattordici di diritto: Federer gli aveva tolto il tempo per impostare lo scambio, relegandolo (molto) dietro la linea di fondo. Al di là dei due match point falliti, buoni per l’epica del racconto, lo svizzero la perde nei tre tie-break fatali: con la zavorra sulle spalle di undici errori non forzati, laddove il serbo (zero unforced..) realizza il golpe perfetto. I punti non sono tutti uguali.. Non una situazione inedita nella storia del tennis, ricordando – proprio sul Centre Court – una semifinale, bella e crudele, tra Stefan Edberg e Michael Stich (1991).

Lo svedese non subì nemmeno un break, comandò, ebbe una selva di occasioni (sette palle break non sfruttate) ma perse tutti e tre i tie-break: finì 4-6 7-6 7-6 7-6 per il fenicottero tedesco. Per capire l’antifona, di cosa sia accaduto a Wimbledon e al gioco, i due – esponenti di lusso del tennis d’attacco – totalizzarono insieme duecentotto (due-zero-otto) serve and volley.

Sarebbe bastato per Novak un altro Roberto Bautista Agut, magari ai quarti, due ore in più di rincorse e di diagonali, e Roger l’avrebbe vinta straripando? Presumiamo di sì, in un gioco di performance dove conta il serbatoio, e gli head-to-head sono falsati dalle circostanze: individuano un’inerzia, spiegandola solo superficialmente. Djokovic, nel periodo di crisi, non aveva incontrato il Federer à bloc del 2017. Si sono incrociati nuovamente, nell’ultimissimo evo, a Cincinnati (2018) in condizioni particolari. Nole arrivava dal quarto Wimby, insperato ma non troppo, il basilese da una sequenza di partite così così – dalla schedule forzata per ragioni meteo – con una fasciatura al polso (destro) più che sospetta.

L’ultimo venerdì dei Championships 2019, quarantotto ore prima della finale, c’era stato il quarantesimo Fedal della serie. Il duello più iconico (e importante) e quello con le dinamiche più curiose: un (gigantesco) complesso di colpe federeriano, edificato sulla terra rossa, sbilanciato negli anni d’oro verso Manacor, che – a fine carriera – si è ribaltato a favore del più vecchio.. Il luogo comune che impone la contesa al quinto set come leggendaria comunque, a dispetto della realtà, si infrange su un Federer-Nadal di livello superiore (rispetto a ciò che si è visto la domenica). Il parziale d’apertura e almeno quattro game del secondo set sono stati straordinari: una sfida a scacchi, con Rafa a sorprendere col (sottovalutato) rovescio bimane e Roger aggressivo e centratissimo. Nell’attimo della fuga nel secondo parziale, dopo il break a favore, il minotauro si è illuso che – da lì in poi – quello sarebbe stato il leitmotiv del pomeriggio. E’ invece Federer, all’incipit del terzo, ad alzare ancora lo standard, replicando l’incipit, e costringendo Nadal a un tennis minimalista, disputato su pochi scambi lunghi e molti uno-due.

 Si è appena concluso, all'All England Club, il quarantesimo Fedal della storia: il primissimo, nel 2004, fu a Miami.
Si è appena concluso, all’All England Club, il quarantesimo Fedal della storia: il primissimo, nel 2004, fu a Miami.  

Quarantanove vincenti dell’elvetico a fronte di trentasei errori non forzati. Una serie statistica clamorosa, opposto al migliore passatore del circuito, sono il tredici su diciassette nel serve and volley, i quarantaquattro blitz al net (trentaquattro vinti, il 77 per cento!) e i quaranta approcci (trentuno vinti). I trentatre slice chip di rovescio del Re, specchiati nei ventisette slice chip in backhand del proprietario (..) del Philippe Chatrier, riassumono un tema tattico più all’osso e dunque tradizionale. Nadal, costretto a un tennis contro natura per le sue caratteristiche, ventisette winners (sette di rovescio) con trentadue unforced, undici discese a rete (sette punti ricavati) e otto net approach (cinque vinti), forza e sbaglia di più. Soccombe malgrado, nell’epilogo, si opponga alla sorte con un paio di passanti da antologia (7-6 1-6 6-3 6-4). Guardando la luna, non il dito, quest’anno l’impresa (sfortunata) l’ha fatta il vegliardo: che ha imposto la sua legge, tecnica, ai due rivali acerrimi.

Cinque anni orsono, il Djoker raggiunse forse il suo apogeo in una singola giornata: il giochino, con Federerissimo, lo stabilì lui almeno fino al termine del quarto set, allorché il basilese – con la sconfitta addosso – si ribellò con una mezz’ora di prodigi. Ci volle anche un medical time out chiamato ad arte nel quinto parziale, quando Nole non comprende perchè il pubblico stia dalla parte del Re finge di dimenticarsi del suo abuso di mezzucci da challenger, per interrompere quel diluvio. Una recita magnifica, con il serbo che fece ottanta (!) vincenti, venti di rovescio, e solo quarantuno errori non forzati (venti di diritto): il paragone con il 2019 è imbarazzante. Venticinque su trentadue a rete, ventuno su ventisette negli approcci, quel Djokovic (allo zenith, al pari di certe esibizioni del suo magico 2011) propose anche quattro S&V (e tre punti).

Federer, ottantacinque winners (trentuno col diritto), trentanove unforced, uno stupefacente diciassette su ventitre nel serve and volley (il 74 per cento, con la perla di un tre su tre sulla seconda di servizio..) non fu efficace al volo come questa estate (undici su ventisette: un 41 per cento significativo delle sue difficoltà contro i quattro angoli aperti di Nole). La comparazione, accompagnata da un amarcord fuori luogo, è sempre con il mitico Borg-McEnroe del 1980: ma i biopic cinematografici non hanno (più) a che fare con la realtà, commerciando di simulacri.

Con le racchettine di legno, i prati di vecchia concezione (spelacchiati uguale) si colpiva peggio – lo sweet spot non è un’opinione – e si giocava in modo diverso. Il difensore Bjorn Borg, il primo muro in top-spin, un super atleta, fu costretto (..) a centosedici serve and volley (ottantuno punti, il 70 per cento..) e centoquarantasei (1-4-6..) discese a rete (cento punti realizzati) più centotrentasei approcci (novantaquattro vinti..). Sessantatre vincenti, trentaquattro di diritto, e ben ottantasei errori non forzati (quarantatre in backhand). John McEnroe – quel pomeriggio – produsse tanto e troppo. Sessantanove winners, ventinove di rovescio, e una caterva di unforced errors (centodue). Centosette su centosessantacinque S&V e centonovantaquattro discese a rete (centoventi vinte) con centottantadue net approach (centoquindici punti). I diciotto slice chip in backhand, tre forehand, dell’Orso (un fenomeno) e i trentatre slice chip di rovescio, due di diritto, del Macca (un genio), esemplificano un’idea. Che uno come Federer, tecnicamente, non c’era mai stato e non si ripresenterà più: con questa forma e sostanza, al netto dei parenti prossimi (da Bill Tilden a Pete Sampras, passando per il più simile, ovvero Lew Hoad).

 6 luglio 1980, la madre di tutte le finali Slam dell'era Open: l'archetipo delle rivalità moderne, Bjorn Borg contro John McEnroe.
6 luglio 1980, la madre di tutte le finali Slam dell’era Open: l’archetipo delle rivalità moderne, Bjorn Borg contro John McEnroe.

Il venerdì del Fedal, nell’altra semifinale tra Djokovic e Roberto Bautista Agut (6-2 4-6 6-3 6-2), si è assistito a uno scambio di quarantacinque colpi. Una roba impensabile ancora negli anni Zero, l’epoca di mezzo, quando cominciò – proprio all’All England Club – l’omologazione. La lunghezza dell’erba, da quattro a otto millimetri (dal 2002), e la semina di loietto inglese al posto della mistura, della stessa perennial ryegrass, con la festuca. Un manto più compatto e regolare, con rimbalzi più alti, invece di un campo soffice e traditore che sconsigliava il fondo campo. Il resto non è (stato) mancia. Le corde luxilon e i nuovi ovali hanno reso possibili colpi, di rimbalzo, prima inesistenti e adesso produttivi; dal 2001, le teste di serie allargate – da sedici a trentadue – evitano molti incroci spiacevli nella prima settimana. Serializzando i duelli, hanno calcistizzato il tennis. E’ per quello che la conta numerica dei primati, progressivamente da inizio secolo, andrebbe pesata con l’aiuto degli asterischi. Accadrà nel futuro prossimo, impedita negli ultimi lustri dalla concorrenza fra i tre mostri, con questa uniformazione, che qualcuno (ri) farà il Grande Slam. Un’annata con gli astri allineati e un campione al vertice della sua parabola basterebbero, tanto le superfici – di questo passo – potremmo distinguerle solo per il colore.

Quest’anno, a Wimby, i soliti noti, il Fedal, la finale e un Nadal-Kyrgios da O.K. Corral (Nick il mutante tamarro, uno dei panda del post Federer con gesti tecnici istintivi, non costruiti nei laboratori delle accademie..) hanno nascosto un (piccolo) disastro. Gli inglesi, bravissimi a contare i dindi, si sono prodigati a rendere monodico – conforme a un torneo qualsiasi sul cemento – lo scenario. Due tetti costruiti quando, col Riscaldamento Globale sempre più in auge, le estati londinesi sono diventate più secche; le palle più pesanti e l’erba piantata scientemente (a x) in direzione opposta alla marcia dei colpi. Il Centrale e il Campo Uno, laddove si giocava – a favore di telecamere – maggiormente, in uno stato imbarazzante. La scusa, per imporre il marketing sul senso tecnico e storico, parte dalla leggenda metropolitana della finale 2001 Rafter-Ivanisevic. Una contesa erbivora, con quello chassis, originalissimo, magnifica e brutale quanto l’ultimo Federer-Djokovic. Goran battè Patrick sul filo (6-3 3-6 6-3 2-6 9-7), in una gara di power tennis con meno ace di quelli che si immaginano (ventisette a tredici per il croato), e molta qualità intrinseca.

Sessantadue winners (e diciassette unforced, una miseria..) dell’australiano, sessantanove vincenti (e trentasette errori non forzati) del vincitore. Inutile ribadire che si scese a rete spesso, addirittura per un combinato di duecentoquaranta volte. Con le regole che cancellano, piano piano, la biodiversità e gli specialisti (l’ATP Robin Hood al contrario, che toglie ai Pablo Cuevas e ai Mischa Zverev per dare alle superstar), un Ivan Lendl – un Grande che provò, in tutte le maniere, a imporsi nei Championships – non sarebbe andato sotto contro i Boris Becker e i Pat Cash del tempo. Li avrebbe corcati di passanti e di pallate, sulla terba.

Il prodotto supremo del tennis contemporaneo è l’abolizione della propria storia?