64 PARTITE PER UN FUNERALE AL CALDO

Taccuino avvelenato, intinto nel petrolio (nero e unto), che odora di gas e polonio su una foresta che accenna appena al foliage autunnale.
Come siamo finiti dall’albo delle figurine Panini di Monaco 1974 al Simulacron di FIFA 2022 degli Al Thani?
Chiudendo gli occhi.
“Living is easy with eyes closed.”

1

Non è compito nostro raccontare come furono assegnati – nel 2010 – i Mondiali di calcio 2022.
Ci sono le inchieste (nessuna italiana: un segno dei tempi) a spiegarlo.
Lo stesso teatro kabuki dell’edizione precedente, un flusso di dollari e di corruzione e di minacce politiche: l’uno-due con il regime criminale russo nel 2018 lo zenit di un sistema, non solo calcistico (alle ultime Olimpiadi, in Cina, è stata impedita la libertà di movimento ai media), che confeziona i colossal sportivi per le mascelle dei tiranni.
Qatar 2022 è un momento storico, il funerale dell’idea novecentesca che avevamo di un gioco, il più popolare di tutti.
Che è diventato un esercizio spettacolare di sportswashing e una simulazione in ogni suo aspetto (estetico, sociale, tecnico, agonistico).
Avevamo recuperato poche partite di Russia 2018, un torneo scadente, non vedremo un secondo della fiction qatariota.
Non si tratta di boicottare un prodotto, che sarà comunque consumatissimo dal pubblico (pagante, cliente, guardone), ma di riconoscerne l’inutilità storica.
Il danno incalcolabile.
Una finale della Coppa del Mondo di football giocata a sei giorni da Natale, nell’evo di maggior decadenza delle nazionali, farlocche, stritolate dal successo della Champions League.
Un Barnum televisivo, digitale, all’interno di tecnostadi colorati, a led e aria condizionata, con un pubblico finto di maschere.
In quarant’anni, il simulacro della pedata è passato dalla bolgia del Sarria all’Executor in cemento di Lusail.

2

Il conto dei morti, dei lavoratori stranieri (pakistani, indiani, nepalesi, bengalesi, cingalesi) utilizzati per costruire le strutture, è impossibile.
Si dice almeno 6500 vittime, nascoste dalle statistiche truccate ad arte.
I Mondiali sono stati la bandierina più vistosa, conficcata dagli emiri, nel piano globale di conquista del (vecchio) foot (e dello sport).
Gianni Infantino, al di là delle dichiarazioni pro forma, come segretario dell’UEFA aveva consentito il raggiro delle regole del fairplay finanziario a PSG e Manchester City.
E’ uno dei registi dell’operazione Qatar: l’imbarazzo non c’è, con i soldi che girano vorticosamente (da un’operazione all’altra), nemmeno quando l’ambasciatore della rassegna iridata, Khalid Salman, dichiara che “l’omosessualità è un disturbo mentale.”
In una nazione parodia, uno Stato distopico di ricchissimi e servi (immigrati e clandestini), dove i partiti politici non possono esistere per statuto, per la primissima volta avremo una milizia internazionale che si occuperà della sicurezza.
Migliaia di soldati da 13 contingenti, tra i quali 560 italiani (Forze Armate e Carabinieri, 46 mezzi terrestri, un pattugliatore e due aeromobili).
Perché dovremmo perdere il nostro tempo di fronte a un buco nero?
Imparare a non consumare più, questo piatto tossico, provarne vergogna e rifiutarlo (di getto) è l’unica reazione possibile.
Questo non è più un gioco e forse non lo è mai stato.

3

“Brasile 2014 fu decente, ma Sud Africa 2010 piacevole come la visita da un dentista.
Italia ’90 fu veramente povero di contenuti e Germania 2006 memorabile più per il clima da party che per le partite.
Il miglior calcio del mondo non appartiene alla Coppa del Mondo da oltre vent’anni.
Il Barca, per esempio, ha sempre giocato dal 2008 meglio della Spagna, anche se questa vinse tutto.
Anche se sono finiti i tempi dei 10 gol dell’Ungheria contro El Salvador, oppure dei 9 della Jugoslavia allo Zaire, non significa che il livello della Coppa si sia alzato.”
(Alex Ferguson, 2017)

4

Il 29 ottobre a San Siro, durante l’intervallo di Inter-Sampdoria, la Curva Nord (interista) è stata svuotata per commemorare la morte, in diretta (in un agguato), del capo ultrà Vittorio Boiocchi.
Migliaia di tifosi sfollati, a spintoni e insulti, da una banda.
La paralisi operativa del club sull’azione (violenta) è ormai una prassi, mediatica e culturale.
Boiocchi si vantava di guadagnare 80000 euro al mese dalla (di) gestione dei parcheggi e dei biglietti.
Il personaggio arrivava già da dieci condanne definitive (rapina, furto, traffico di cocaina, detenzione illegale di armi, ecc.).
Anni fa, nell’ambito di un’inchiesta sulle infiltrazioni mafiose nelle tifoserie organizzate, erano eloquenti le testimonianze di Francesco Calvo, (allora ex) della Juventus: evidenziavano la paura e la solitudine di certi dirigenti, scoperti, in prima linea, di fronte alle minacce (fisiche) di ripercussioni.
Da qualche decennio, il principio della rana bollita è stato applicato all’ambiente stadio.
Gli striscioni paramilitari (“Onore alla tigre Arkan”), le curve radiocomandate per mandare messaggi (Galliani, Moggi e Cragnotti docet), i Diabolik e i Genny ‘a carogna a mo’ di attori di un romanzo pop.
Il calcio, come linguaggio, ha reso affascinante e consueto il ritorno del fascismo come habitat italiano.
Prima allo stadio, poi in uno studio televisivo, a catena, piano piano fino alle istituzioni: è passato quel sentire comune attraverso le simbologie e gli slogan.
Un serbatoio infinito di risorse per le idee senza parole, formalizzato dalla vicinanza di un Luca Lucci con un Matteo Salvini (ai tempi, ministro degli Interni).

5

1 Naomi Osaka  53.2 milioni di dollari
2 Serena Williams  35.3  3 Emma Raducanu  26.2  4 Eileen Gu  23.1 5 Simone Biles  9.0
..
La classifica delle atlete più pagate del 2022 ci racconta molte cose.
Che il tennis femminile, seppure in un momento di crisi, è più avanti di tutti nella promozione delle sue stelle (e lo sapevamo).
Che nello sport pro, dopo i modelli di David Beckham e Anna Kournikova, l’atleta meglio venduto come brand è sempre meno l’atleta migliore.
Lasciando a parte la Williams, un’icona con un palmarès gigantesco, vedere in cima Osaka e Raducanu, figure ideali dello sport globalizzato e tenniste dai risultati mediocri (15-10 il parziale della giapponese nell’annata, 17-19 per la britannica), ha qualcosa di tragicomico.
Constata la separazione del marketing dalla realtà, pericolosa nelle retroazioni della rappresentazione: i forni vuoti di Fort Worth (alle WTA Finals) e Glasgow (Billie Jean King Cup) lo testimoniano.
Se lo sport viene gestito integralmente dai procteriani, senza un’idea tecnica e storica dello stesso, retrocede a format, a reality.
La miseria dei dirigenti che inseguono gli adolescenti di TikTok – per racimolare più follower (..) invece che far crescere nuovi appassionati: vero Andrea Gaudenzi? – potrebbe distruggere diversi giocattoli di successo.

6

La vicenda di Kyrie Irving pare una nuova forma di stand-up comedy.
Essere sul parquet un fenomeno, Rod Strickland con il jumper alla torta di mele di Louie Dampier, incrementa il rumore per le fesserie combinate dall’ennesimo milionario tatuato.
Da anni, a ogni tappa (Cleveland, Boston, Orlando, New York), il suo disagio si manifesta con performance che aggiornano il repertorio.
Il risultato, sul campo (sigh), sono i Nets che sembrano sempre più i (cari) vecchi Nets della palude, soprattutto negli effetti speciali: malgrado Kevin Durant, sempre uno dei primi della pista a palla con estro, a Brooklyn luci basse, cinematografiche, e campionamenti (di una folla urlante) per nascondere i circa 5500 abbonati (un disastro per le esigenze NBA).
Capita pure che Joe Tsai, il presidentissimo, per lenire un monte salari faraonico (185108628 dollari nel 2023), abbia tirato su i prezzi dei biglietti.
Intanto si aspetta il rientro del “comical buffoon”, in attesa di altre dichiarazioni e di qualche trentello con highlights inclusi dell’ex Cavs.
Il fantasma del New Jersey, e delle mattane di Derrick Coleman e del Turmoil Team, sembrano oggi un prequel degli ultimi due anni e mezzo di delirio.
Il serial promette repliche fino ad aprile, quando la banda affidata a Jack Vaughn dovrà andare all-in sul banco: contender o Titanic.

7

Irving è il risultato di tante cose accadute, e sedimentate, tra cultura popolare e media digitali.
I morti di fama che sono stati morti di fame, circondati da una posse adorante (e che batte cassa..), non hanno interesse a cambiare se non per salvare lo status economico.
La continua comunicazione, tra atleta (testimonial e prodotto) e pubblico (tifoso e cliente), è solo un problema di chi si aspetta comportamenti e parole esemplari dai campioni.
Che sono bravi bravi a fare quella cosa lì (canestro in controtempo, andare in bici a 50 all’ora, tirare nel sette aggirando la barriera..): perché chiedergli altro?
Pretendere che siano sempre arguti (Martina Navratilova), addirittura intellettuali (Kareem Abdul-Jabbar), a volte urticanti quanto intelligenti (Pietro Mennea, Laurent Fignon), è utopico e sbagliato.
Il campione è soprattutto un campionamento (sigh) del vissuto, della contemporaneità: testimonia il presente, senza (troppo) pensiero.
Olga Zaitseva che si offre per il fronte del Donbas, pronta a uccidere ucraini col suo fucile, è solo un lampo, un flash di una macchina fotografica, su una Russia (o quel che ne rimane) allo sbando, cupissima quanto la cattedrale di Odintsovsky.
La campagna elettorale di Herschel Walker, vecchia stella NFL, nelle elezioni americane di midterm, è situazionismo involontario.
“Una macchina da gaffe ambulante” (Chris Cillizza della CNN), per gli standard già bassi del Great Old Party contaminato dai trumpiani (una setta di teorici della cospirazione, cattonazi e razzisti), certifica che ai tempi di Walker il protocollo delle concussion non era ancora stato applicato.
Se abbiamo un amarcord, chiunque sondi il passato (bene, con cura) comprende meglio la nostalgia del futuro, è quello dei campioni silenziosi, privi dell’ego mitomane e saggi, che non dovevano – per forza – vendersi dopo una vittoria o una sconfitta o un allenamento.

8

Al 6 novembre 2022, ventuno gare FIS sono state cancellate tra sci alpino, fondo, snowboard e freestyle.
Abbiamo visto una Maratona di New York, lo stesso giorno della eliminazione di Lech dalla Coppa, disputata a 24 gradi centigradi.
Il Pirocene avanza e tentiamo affannosamente di non prestare (molta) attenzione.
In questo decennio potrebbero modificarsi – per sempre – molti scenari naturali.
Incredibile che la FIS, nell’evo del cambiamento climatico, non abbia ancora corretto calendari e approccio ai circuiti.
Per lo sci alpino si dovrebbe (ri) partire dal Sud America, Cile e Argentina, a settembre, spezzettando la proposta: non ci sembra difficile.
Dobbiamo (devono) capire, dirigenti, atleti, sponsor, che si stanno riducendo i margini – organizzativi – di alcune discipline classiche.
Alpino e nordico vedranno ridotte le finestre temporali degli eventi e, soprattutto, le località.
Sotto i 2000 metri d’altitudine, tranne i luoghi con un microclima favorevole e gli alisei del business (Kitzbuhel ha più armi per affrontare il problema..), sta diventando rischiosa una (semplice) programmazione.
E se per il biathlon e il salto, sport da stadio, da arena, il paesaggio è relativo, una discesa libera o una 50 chilometri devono essere ripensate.
Urge un’evoluzione (rivoluzione) nei format.
Il Pirocene, comunque cambierà anche gli sport e i giochi estivi: una Maratona metropolitana, di un evento, una partita di calcio pomeridiana, in una manifestazione, con le temperature africane del ’22, in Europa o in Nord America necessiteranno di accorgimenti impensabili fino a poco tempo fa.

9

Le presentazioni di Tour e Giro non sono sovrapponibili, manco per scherzo.
Dal punto di vista del marketing, il confronto era tra una merce di punta di una multinazionale e una sagra paesana: l’imbarazzo di essere italiani non è più nei dettagli, ma nel quadro complessivo.
Sul campo, l’asfalto, le due vicende paiono parallele (come i binari di un treno) per poi divergere.
Il Giro d’Italia 2023 è una gara tosta, con qualche vetta storica, un tappone vecchio stile (che finisce sulle Tre Cime di Lavaredo) e tre cronometro tre per attrarre (disperatamente) i campioni fuori fuoco per il Tour.
I quasi 71 chilometri contro il tempo chiamano il reuccio Remco Evenepoel (sogno bagnato di Cairo: quasi sicura la sua presenza), Primoz Roglic e Geraint Thomas.
Senza italiani spendibili, il dopo Nibali una via crucis, la politica più logica.
La Grande Boucle, dalla partenza nei Paesi Baschi ignora qualsiasi regola tecnica delle grandi corse a tappe.
Il percorso, una Vuelta implementata dal meglio del plotone, alla ricerca spasmodica (da Bilbao ai Campi Elisi) del bagno di folla, il ritorno sul Puy de Dome sarà un pezzo di cinema (..), della salitella, salitona, rampa, per catturare più ascolti televisivi e generare buzz.
Pirenei, Massiccio Centrale, Alpi e Vosgi: un disegno infantile.
22 chilometri di crono, niente pavé, strade da ventagli (agguati) quasi assenti, chilometraggi da juniores: la negazione del menu che rese indimenticabile il Tour 2022 (uno dei migliori dell’era moderna).
Amaury – correndo verso incassi sempre più corposi – preferisce la bolgia, il corpo a corpo, la classifica cortissima, col secondo fine dell’agognato 1985 (lo Julian Alaphilippe del 2019 potrebbe fregarli tutti..).
Ci penseranno i corridori a renderla interessante, la gara, ASO si preoccupa di vendere ogni secondo possibile, ogni fotogramma (pixel) del blockbuster.
Che si è inventato (?) il sequel femminile ed RCS Sport, in ritardo, si sta accorgendo delle potenzialità del settore: anche qui, a dispetto che il Giro femminile sia più qualitativo del suo corrispettivo francese, si rincorre la concorrenza.
Ci stiamo abituando, come italiani, in ogni settore vitale della società, a stare in fondo al gruppo.
Attenti che, dopo, ci sono solo la vettura scopa e l’ambulanza.