5 luglio, Lille Métropole – Lille Métropole

A Lilla, un pezzo di Fiandre confinato in Francia, comincia il Tour 2025.
Si gira intorno, evitando il pavé della Roubaix, in una corrida per ruote velocissime.
Se i primi giorni della Grande Boucle sono (sempre) un rebelot, la prima settimana di quest’anno riaggiorna la teoria del caos.
Un percorso anni ’90, mono tono, tappe in cerca d’autore, nel Nord, tra un mangia e bevi e un ventaglio.
La salsa, rosso sangue, una tensione senza eguali nel gruppo.
Qualcosa che aggiunge fatica allo sforzo (atletico) e al bailamme che circonda la corsa.
52 chilometri e casca – male – Filippo Ganna.
Dopo il Mont Cassel, classico gpm della settimana introduttiva (collinetta, se va bene, altrimenti un cavalcavia), Pippo si ritira.
Due mesi di preparazione specifica mandata a farsi fottere.
Gli italiani con un numero sulla schiena rimangono dieci.
Tranne Jonathan Milan, gli altri fanno i domestici o improvviseranno nelle pieghe (delle fughe e delle volate).
Nel 1997 c’erano 7 squadre tricolori, oggi zero, e 53 italiani.
Nella traiettoria (ubriaca) tra quella GrandItalia e il titolo nazionale di Filippo Conca dei semiprofessionisti dello Swatt Club, a Gorizia, c’è tutta l’odissea di un movimento diventato bonsai.
Un azzurro non vince una frazione del Tour dal 2019: il solito, rimpianto col senno di poi, Vincenzo Nibali.
Farebbero 109 frazioni consecutive senza vittorie.
Il Tour de France, ormai non solo per i cugini, crea una memoria collettiva.
Sul Mont Noir, l’altro zampellotto che regala punti per la maglia a pois, il plotone fende una folla a strati, come una Saint Honore.
I due desperado in avanscoperta, Matteo Vercher e Benjamin Thomas, gomito a gomito su un acciottolato cittadino, si contendono il gpm facendo (un curioso) strike.
Tutti – e due – giù per terra.
Jonas Vingegaard, scortato dai suoi calabroni, è sempre davanti.
Dietro, rimbalzano quelli che sono partiti con la gambetta incerta: Lenny Martinez, figlio e nipote d’arte, è un elastico di 50 chili, attaccato col nastro adesivo, nelle retrovie.
A ogni villaggio, campane a festa.
Citando Jacques Tati, un fuoriclasse, la Grande Boucle ovunque si manifesti è un Jour De Fete.
Ad Armentiéres si passa a 46 orari, in una selva di rotonde e spartitraffico e pubblico urlante.
Nel 1994, qui, arrivo Gran Guignol allo sprint: Wilfried Nelissen centrò un gendarme che lo stava fotografando (!), in pieno, a 70 metri dal traguardo.
Nel mucchio selvaggio, bici e corpi che saltavano via, pure Laurent Jalabert, che si nutrirà con la cannuccia per i successivi tre mesi, con la dentatura disfatta e un intervento di chirurgia plastica per rimediare alle fratture facciali.
Si impose il terrore di Taskent, Djamolidine Abdoujaparov.
Per la (fredda) cronaca Nelissen, velocista resistente di rango nobiliare, finirà la carriera – a 26 anni – scontrandosi con un’ammiraglia in una Gand-Wevelgem brutta, sporca e cattiva.
In piena campagna, ai meno 17, ventaglio orchestrato dai Visma Lease a Bike.
A metà, a bagnomaria, rimangono Tim Merlier, Milan e un Remco Evenepoel che – per qualche metro – finisce sul selciato.
Altri nel sacco, Primoz Roglic (mai un drago a limare..), Wout Van Aert, Arnaud De Lie, Florian Lipowitz.
400 metri di distacco in un battibaleno.
Tadej Pogacar, che è sveglio, è con quelli in testa; sonnecchiano un po’ i suoi, in gita, perculati da una Alpecin organizzatissima.
Mathieu van der Poel, bello come il sole al Delfinato, dirige l’orchestra.
Sullo stradone che porta a Lilla, 60 all’ora: Evenepoel e soci a inseguire, fronte sul manubrio.
Tensione e delirio, un paio si arrotano, Julius van den Berg (che è pure veloce) si sdraia sull’asfalto.
Treno Alpecin d’alta scuola per il volatone: Jonas Rickaert fino ai 600 metri, van der Poel (regista e capitano) penultimo derny, Kaden Groves pesce pilota di Jasper Philipsen che stravince di tre bici, su Biniam Girmay e Soren Waerenskjold.
Quinto Matteo Trentin.
47 e 6 la media sui 185 chilometri. 39 i secondi di ritardo di Evenepoel (e Roglic). Milan vince lo sprint dei polli.
Un gruppetto, con Simon Yates, paga 6’31”.
Martinez, che due settimane fa si era imposto nella tappa regina del Dauphine, giunge a 9’11” davanti alla vettura scopa.
4 ore di Tour e già una setacciata niente male.
8 luglio, Amiens-Rouen

La Normandia è l’altra idea (stereotipata?) della Francia, che non sia Parigi.
Paesi, cattedrali, campagne.
Da queste parti si è imposto il Gotico, hanno bruciato sul rogo Giovanna d’Arco, è nato il romanzo (moderno), pardon Gustave Flaubert.
La cote Jacques Anquetil, panoramica, celebra uno dei personaggi sportivi del Novecento.
Campionissimo e maudit.
Maitre Jacquot, un genio (anche del male), oggi sarebbe improponibile per gli standard (?) morali che ci siamo (auto) inflitti.
Jeanine, le (altre) donne, i 5 Tour, l’alcol, il cibo, le partite a poker.
I criterium, i soldi, le anfetamine, le feste, i sigari, il posto delle fragole.
Oltre la boscaglia, all’orizzonte, il Castello degli Elfi edificato dal babbo di Guy De Maupassant.
Chissà se Mathieu van der Poel, di giallo bardato, ha posato lo sguardo – per qualche secondo – sull’eremo che fu dell’acerrimo rivale del nonno Raymond Poulidor.
Ci si imbottiglia, ad andatura veloce assai, un Prestissimo, verso una sequenza di salitelle che annunciano battaglia tra i big.
Sfinita la fuga del pomeriggio, con Kasper Asgreen rouleur di lusso e un redento Martinez, l’ultimo a farsi mangiare (vivo) dal plotone, si imbocca la cote de Bonsecours.
Lassù, si fa per dire (135 metri d’altitudine), Jean Robic l’ultimissimo dì ribaltò il Tour 1947, quello della ripartenza dopo la tragedia bellica.
Scattò, d’accordo con Edouard Fachleitner, su questa collinetta a 120 chilometri da Parigi, per un golpe studiato con i nazionali francesi (e belgi), lui che correva nei Regionali dell’Ovest.
Si attaccarono anche alle ammiraglie, nella confusione, per staccare i paisà Pierre Brambilla (che pensava d’aver vinto il Tour..) e Aldo Ronconi.
A Testa di Vetro, la fedeltà di Fachleitner costò 100000 franchi.
Se Anquetil era la classe, l’eleganza, la trasgressione, Robic impersonò il clown augusto su una bici.
Scalatore furente, sgraziato, ciclocrossista d’istinto, gettava il cuore e il fegato al di là dell’ostacolo.
Con ogni mezzo: leggerino, faceva le discese pirenaiche e alpine con una borraccia riempita di piombo fuso, per appesantirsi.
L’UAE Emirates, Tim Wellens vestito come la Pimpa, spiana a 30 km/h la Stele Robic.
A 11 chilometri dall’arrivo, azione collettiva dei Visma, con un Victor Campenaerts locomotore.
5000 metri di tirata, nel toboga (pericoloso..), all’ingiù, di Amiens. 65 orari, facendo la barba al pubblico e alle transenne.
Ai 6 dal traguardo compare – lui che detesta fare a gomitate nel gruppo – Joao Almeida.
Domestico di lusso di Pogacar, due settimane fa ha dominato il Giro di Svizzera.
La Rampe Saint Hilaire, 720 metri al 12 %, viene affrontata a mo’ di keirin.
Ai 5 e 300, Pogi parte fortissimo: l’unico a tenerlo, ma con la favella sul computerino, Vingegaard.
Il campione del mondo fa i 19 all’ora su una rampa al 15 percento. Gli altri, sono già a 125 metri.
A meno 4 rientrano – in pochi – ed è ancora Joao Meravigliao a ricucire su Evenepoel, che sbaglia una curva, e Matteo Jorgenson.
La rissa a pedali, con Almeida pacer, porta allo scenario da sogno: van der Poel contro Pogacar contro Vingegaard.
Mathieu parte lungo, ai 200 metri col rettilineo che sale, Tadej lo salta di giustezza, Jonas rimbalza e ritorna.
Vittoria numero 100 dello sloveno, da professionista, la vernice in Portogallo, alla Volta ao Algarve, a Foia, il 21 febbraio 2019.
Il Tour, tecnicamente, si dice che cominci domani, con la cronometro, ma il prologo – tutto a favore di telecamere (tivù, web, smartphone) – è stato bello tosto.
Inciderà nel serbatoio, nelle riserve d’energie della terza settimana.
14 luglio, Ennezat- Le Mont Dore

Dieci tappe per arrivare al (primo) riposo: un’eccezione, nei Tour moderni, che segnerà molte dinamiche della Generale.
Ieri, in teoria, la Chinon-Chateauroux piatta, qualche castello qua e là, nei campi bruciati dal solleone, doveva essere una frazione di trasferimento.
In pratica, accade che van der Poel, in combutta col compagno (e amico) Rickaert, insceni un Trofeo Baracchi dal KM Zero.
Col vento alle spalle, i due vanno come motorini e obbligano le formazioni dei velocisti a spolmonarsi.
Van der Poel, salutato Jonas, viene ripreso in zona Cesarini, a 700 metri dalla fettuccia bianca.
Farebbero 172.8 chilometri su 174 totali, in testa. 3 ore, 27 minuti, 44 secondi. 50 013, la media della rumba.
MVDP, l’MVP di questi 10 giorni elettrici.
Oggi si naviga nell’Alvernia, tra i vulcani spenti, sulle dune del Massiccio Centrale, e si corre il lunedì perché festa nazionale.
4450 metri di dislivello, 8 gpm e la calura.
La fuga esce di consunzione, con l’UAE che lascia fare.
L’EF ne piazza quattro, con il piano di portare in giallo Ben Healy.
Che non sente la catena e si è imposto giovedì, a Vire Normandie, sparandosi 40 km da solo.
Il suo team calcola che l’irlandese, quel giorno, abbia consumato 6252 calorie e 1245 grammi di carbo.
La compagnia dei fuggitivi è numerosa (sono 29) e qualificata: tra gli altri, Simon Yates, Ben O’Connor, Quinn Simmons, Michael Woods, Julian Alaphilippe.
Lenny Martinez fa incetta di punti del gpm, per emulare nonno Mariano che vinse la maglia a pois nell’80.
Dietro – ormai a più di 5 minuti – è un tira e molla.
Ieri ha dovuto abbandonare Almeida, con una costola fratturata, vittima di una caduta (banale) nel fondovalle del Mur de Bretagne.
Appare evidente che adesso a Pogacar manchi l’ultimo uomo, la spalla ideale nei (futuri) tapponi. Sulla prima cote, quella di Loubeyrat, Pavel Sivakov si stacca coi velocisti.
Intanto la Visma fa casino ed evidenzia, coi Sepp Kuss, Jorgenson e Campenaerts (che sta con Yates davanti e si farà riassorbire), una superiorità numerica inquietante per Pogi e Remco (solo soletto).
Si costeggia l’ombra del Puy de Dome, la folla è un nastro continuo di colori, voci, suoni, cartelli.
Il passaggio a Clermont Ferrand ricorda Raphael Géminiani, romagnolo di Francia, che in questo sport fu tutto.
Campione, gregario, direttore sportivo, imprenditore.
Nel ’52 le Grand Fusil fu uno degli ultimi a essere saltato dalla seggiovia (..) Coppi, salendo il Puy de Dome.
A Fausto, l’amico di quel pezzo di vita, lo legava anche la malaria contratta in quel viaggio africano del 1959: i medici italiani non consigliarono a Coppi il chinino, che a Geminiani salvò la pellaccia.
Healy, stilisticamente (?) sembra un fossile di un ciclismo che fu (un Michel Pollentier, un Fernando Escartin), seleziona la banda salendo il col de la Croix Saint Robert.
Pogi, che pedala su una cyclette, si guarda indietro e nota – arrancanti – Adam Yates e Jhonatan Narvaez: decide di marcare i Visma e basta.
Le Mont Dore è incastrato sotto il Puy de Sancy, la vetta più alta del Massiccio Centrale.
3,3 chilometri, l’8 % di media su una stradona che sale, pigra, tra due ali di pubblico.
Yates, Simon, il vincitore del Giro, piazza l’allungo calcolando alla perfezione l’attimo.
Thymen Arensman, un talento grezzo che aspettiamo da anni, gli ritorna sotto a 4-5 secondi.
Uno agile, l’altro duro (..): si impone, nel braccio di ferro, il gemello della Visma.
Terzo, e in giallo, Healy: l’ultimo irlandese con i segni del comando, alla Grande Boucle, Stephen Roche.
Era il 1987, il suo anno di grazia.
Pogi va via, con un’azione dimostrativa, e Vinge non gli lascia un metro.
Gli altri, in pochi secondi, li guardano da un altro prefisso telefonico.
La maglia gialla, appena deposta (prestata..), lascia l’andatura e l’ottavo posto a Martinez.
Chissà se questa solitudine, da numero uno, suggerirà qualche cattivo pensiero a Pogastar.
In attesa di Parigi, dormire a Tolosa val bene una messa.
17 luglio, Auch-Hautacam

Il Tour de France appare alla Madonna di Lourdes.
Tre quarti d’ora di carovana pubblicitaria, 150 veicoli, 10 chilometri di fila, migliaia di persone che la organizzano e la animano.
Un bicchiere d’acqua, rispetto ai 5 milioni di pellegrini che qui visitano i luoghi di apparizione mariana.
Oggi il pensiero corre a Samuele Privitera, 20 anni, che è andato oltre cadendo a Pontey, al Giro della Valle d’Aosta.
Dolore, non fisico, qualcosa di cosmico che toglie il respiro, ogni volta che accade a un giovane uomo, a una giovane donna, in un mestiere che è il più bello e il più pericoloso di tutti.
Si arriva lassù, all’Hautacam, e le sinapsi sono per Javier Otxoa e il suo gemello Ricardo.
Javier correva nella Kelme, al Tour 2000, e fu l’unico – quel giorno – a resistere alla remontada di Darth Vader, Lance Armstrong.
Pioveva e faceva freddo, era la Dax-Hautacam, e abbiamo la polaroid del povero Frank Vandenbroucke, o l’artista precedentemente chiamato così, a bordo strada, coi crampi, distrutto (finito).
Otxoa andò via con Nico Mattan, a 155 km dall’arrivo, fecero il Col de Marie Blanque, mollò il vallone sul Col d’Aubisque, passò il Col du Soulor.
Ai piedi dell’Hautacam, il basco aveva ancora 9 minuti di vantaggio sui favoriti, conservò 42 secondi su un irresistibile Armstrong.
Nel febbraio 2001, a Malaga, in allenamento, i fratelli Otxoa furono travolti da un’auto di grossa cilindrata.
Ricardo morì sul colpo, Javier rimase 64 giorni in coma.
Ne uscì, dall’ospedale e dalla riabilitazione, ricomponendo un pezzo di carne e di corpo alla volta, come atleta paralimpico.
Il 3 agosto, quest’anno, si corre il Circuito de Getxo, Memorial Hermanos Otxoa, che commemora i gemelli della Kelme.
I 180.6 chilometri della prima tappa pirenaica sono intinti in una cappa insopportabile: una canicola che esalta la puzza di bruciato nel plotone, di atleti col serbatoio in riserva, stanchissimi, con la prospettiva di una bambola.
Prima ora 52 km percorsi, una consuetudine sadica di questa edizione 112.
Si vedono cose che suggeriscono il momento: nei coraggiosi davanti, una discesa a tavoletta di Michael Woods, la cazzimma dell’enfant du pays Bruno Armirail, da Bigorre, l’ultimo a resistere al rimbalzo dei big.
Il cui trenino perde la maglia gialla Healy, in una marea di bandiere irlandesi, e un Evenepoel nei panni dell’uomo elastico dei Fantastici 4.
Quando sul Col du Soulor Kuss si sposta, l’odore della batosta si intensifica.
L’Hautacam è un monte classico da Tour, anche se dalla tradizione giovane (primo episodio nel ’94).
Non sono solo le pendenze – il 7.8 % di media – non solo la lunghezza (13.7 km), ma tutto un complesso di cose.
Un biscione, quasi senza curve, esposto al sole.
Alle 5 del pomeriggio, ad Arbouix pare di essere in un forno acceso.
Una bolgia: indiani, l’asfalto con le rughe e le scritte con lo spray, camper, maglie a pois e del PSG.
Si stimano 200000 persone lungo la salita.
Tim Wellens apripista, l’UAE Emirates picchia di brutto, forano le gambe Jorgenson, Kuss, Simon Yates.
Stavolta quello senza domestici è Vingegaard.
Ai meno 12, accelerazione à bloc di Narvaez che lancia Pogi, seduto ma con una marcia (molto) alta inserita.
Sono subito 8-10 secondi su Vinge: i due cominciano una cronoscalata.
In meno di 2 chilometri, i mostri passano Armirail.
Ai meno 10, 16″ di buco, Jonas col monocorona, Tadej fa velocità, cambia ritmo e mette il rapporto medio, da spingere.
Pogacar gestisce la sua superiorità: 30 km/h sul falsopiano, posizione (più) raccolta, potente.
Ai meno 7, laddove comincia il settore più impegnativo (un tratto al 12 percento), les jeux sont faits.
Vingegaard a 50″. A 1’40” la filovia con la coppia Red Bull Roglic e Lipowitz, la speranza bleus Kevin Vauquelin, il promettente Oscar Onley, il norge Johannessen. Tutti insieme disordinatamente.
Remco, staccato, corre – dieselone – col gps e risale su Vauquelin.
16 all’ora di Pogastar su un tratto, diritto come un fuso, al 10 percento.
Tutti cercano l’acqua, le borracce, le bottiglie. Un paio di semicurve sembrano una omelette di tifosi.
Il Lac Bleu e tre aquile benedicono il numero del campione del mondo.
Vinge, a 1’30”, pallido, va di spalle.
Ai meno 3 la seminata, vista dalla stazione, sembra la scena di uno spaghetti western.
Lipowitz, che viene su agile, vede il corteo di macchine e moto dietro Vingegaard.
Sono le 17 45, le Président Emmanuel Macron aspetta sulla linea Pogacar. Che mette nel frigorifero una bella fetta della sacher Grande Boucle 112.
Nel 2022 le prese dal Pescatore, e da Superman Van Aert, stavolta ribalta lui il tavolo.
Vingegaard a 2’10” (3’31” in classifica), Lipowitz a 2’23” (5’34” nella GC). Johannessen e Onley a 3′. Vauquelin a 3’33” ed Evenepoel a 3’35”. Felix Gall a 4’02”, Roglic a 4’08”. Dopo, il vuoto.
Docce gratis, a volontà, in ogni maniera, per chi arriva.
Magari disperso, come Jorgenson (a 10’25”), Ben O’Connor (a 10’43”), Carlos Rodriguez (a 12’31”), Healy (a 13’38”), Simon Yates (a 15’07”).
Curiosità cyberpunk: Pogi a 29″ dal Bjarne Rijs 1996. 23.390 i km/h del capitano dell’allora Deutsche Telekom, 23.070 all’ora la nuova maglia gialla.
L’eccellente Johannessen, tra i migliori, pubblica tutti i dati Strava dall’srm personale.
38’08” il suo Hautacam, 369 watt di media (975 la max, al traguardo), 6 watt al chilo, 97 rpm la cadenza di pedalata, 1646 la VAM.
Si stimano 6.7 watt al chilo per Pogastar, 6.3 per Vinge.
Effetti collaterali del successo popolare: 2 ore per scendere a valle, per le vetture autorizzate, con corsia dedicata, 5 ore per i tifosi.
36 minuti il ritorno al bus Visma di Van Aert, in discesa, col fischietto, nel pandemonio.
“Questa tappa è per Samuele e la sua famiglia. E’ stata la prima notizia che ho letto questa mattina e ho continuato a pensarci durante l’ultimo chilometro. E’ incredibile quanto questo sport può essere crudele.”
(Tadej Pogacar)
18 luglio, Loudenvielle-Peyragudes

10900 metri verso l’eliporto, la cronoscalata mista (..) di Peyragudes porta alla stazione sciistica che, con lo zero termico fuori categoria di questa estate (evo), sembra un’installazione brutalista.
Tra Alti Pirenei e Alta Garonna, da qui i Pirenei paiono i denti affilati di un lupo.
Frazione corta e bastarda, veleno per le gambe, sullo stradone che – dopo il Peyresourde – si arrampica lassù.
Gli 8 chilometri di salita al 7.9 percento tradiscono: ai meno 3 comincia un drittone di un chilometro, poi spiana e, ai 900 dallo striscione, si va su al 13%.
Come mostra il migliore di quelli non di classifica, l’aussie Luke Plapp, che sta sulla hot seat per ore, i 250 metri finali paiono una scena di un film di Béla Tarr. Tutti al rallentatore, a zig zag.
Il collegio di giuria, presieduto da Gianluca Crocietti, leggendo le facce dei corridori, sceglie di ampliare il tempo massimo dal 33 al 40 %.
Decisione saggia che contiene, sulle onde analogiche di Radio Tour, i mugugni di alcuni: Jonathan Milan, in maglia verde, non ne avrebbe bisogno, i suoi avversari per la classifica a punti, sì.
Biniam Girmay, Arnaud Démare, Elmar Reinders, Tim Merlier e Luka Mezgec sorpasseranno il limite di 7’40”.
Se qualcuno rischia, arranca, per molti è una gita agonistica: quel simpatico tamarro di Quinn Simmons, uno col motorone, saluta e dà il cinque ai tifosi.
La festa si conclude quando arrivano i fusti, i Primi Venti, in assetto da prova contro l’orologio.
Roglic, con la specialissima, in posizione, parte forte e arriva fortissimo.
Monocorona, frequenza alta di pedalata anche sulla pista d’atterraggio (sigh): visto il clima torrido, Primoz sfoggia i fantasmini come calze. La sua battuta è che così migliorerà pure l’abbronzatura.
Chi non sfoggia ironia è Evenepoel. Che, ampiamente sotto il suo standard, va via con un rapporto leggerino (..) senza sviluppare potenza.
Al secondo intermedio, ai 7.8 km, prima del tratto difficile, Remco paga 35″ da Rogla.
Molto meglio Florian Lipowitz, che viene su di ritmo.
Il tedesco, nell’anno dei 25, è in rampa di lancio. Nato e cresciuto in una famiglia di sportivi praticanti (sci, bici, atletica).
Fino al 2019 faceva biathlon poi, consigliato da Dan Lorang – preparatore Bora – dopo un test sulla potenza aerobica (che rivelava un’impressionante VO2 max di 80 ml/kg/min), è arrivato il ciclismo.
Seguito dal babbo, cicloamatore doc, a 18 anni, studente e biatleta, si presentò alla Maratona dell’Engadina e si impose, battendo gli adulti (..).
E’ un po’ cucciolo, la chioccia è Roglic, ma il potenziale è da vincitore di un Grande Giro.
Analizzando i parziali nel post, Lipowitz ha preso solo 5″ da Pogacar negli ultimi 4000 metri. Il cielo è il limite?
Niente male, a proposito di promesse, pure lo scozzese Oscar Onley.
Gli ultimi due invece, che sarebbero i primissimi della pista, fanno un altro sport.
Vingegaard, digerita la batosta dell’Hautacam, si presenta con l’assetto da crono, compreso il casco abatjour (..) coi colori danesi.
Un mix di agilità e potenza, il Re Pescatore al secondo settore ha 29″ su Roglic.
L’epilogo garagistico è sadico: Jonas vede Remco, partito 2 minuti prima, imballato, lo punta e lo passa ai 50 metri.
Il (doppio) campione olimpico, uno straccio: meno di 24 ore dopo, Evenepoel (vuoto nelle gambe e nella testa) abbandonerà all’incipit del Col du Tourmalet.
Un 2025 deludente per il fiammingo: che, al di là dell’incidente (grave) del 3 dicembre ’24, non è mai parso in bolla. Nel ritiro in quota a Tignes, dopo il Delfinato, i Visma e i Red Bull facevano volume e qualità, Evenepoel il turista.
Un chilo e mezzo sotto, a stecchetto da mesi, il sabato sera (a Luchon) era da McDonald’s coi meccanici della Soudal-Quick Step..
La nomea di “prossimo Merckx” per un belga si sconta con una pressione, mediatica, costante. Il resto sono le voci sul corteggiamento della Red Bull e del nuovo team che nascerà dalla fusione tra Ineos Grenadiers e TotalEnergies.
E l’impressione che una Vueltina, quella del 2022, non basti come base per fronteggiare i (due) freak.
Quello sloveno in maglia gialla, nei 23 minuti netti d’esercizio specifico, sui 650 metri di dislivello, spaventa e incanta.
Ha deciso di dividere la crono in 6 sezioni e si è gestito, con la bici classica (..), senza auricolare e radio.
Un trenino sui falsopiani, coi rapporti medi spinti come solo lui sa (e può).
Dai meno 3 ai meno 2 Pogastar controlla (respira), poi innesta il turbo. Una belva. Quarto scalpo di questo Tour, Vingegaard a 36″, Roglic a 1’20”, Lipowitz a 1’56”. Settimo Onley, a 2’06”, undicesimo Vauquelin, a 2’35”.
Mancano 8 tappe e stiamo già preparando il palco parigino e i titoli di coda del colossal.
22 luglio, Montpellier-Mont Ventoux

Ultimo martedì della sarabanda gialla.
Il gruppo e l’ASO, concordi nell’abolire le tappe di trasferimento (si va a tutto gas, su ogni tipo di tracciato), filano verso la Provenza e il suo mostro.
Il Mont Ventoux, battezzato dal grimpeur toscano Petrarca nel 1336, è un pezzo di luna incastrato sulla terra.
Un (non) luogo che non è mai stato accogliente, con escursionisti o ciclisti, disteso da est a ovest e dunque (sempre) al sole, o all’ombra, e al vento.
Il Monte Calvo non c’azzecca con le altre vette tranne una, alpina, il gemello dizigote Col de l’Izoard.
Uno scherzo della natura, a volte di cattivo gusto.
Quasi al gpm, nel 1967, ci morì d’infarto Tom Simpson. Rimesso in bici, come carne da macello, dopo una crisi. Aveva in tasca un contratto con l’Ignis, per l’anno dopo, il baronetto iridato a Lasarte ’65.
Nel 1994 della fuga impossibile di Eros Poli, si scatenò un temporale sugli spettatori che tornavano a valle. Uno venne fulminato, sulle rocce.
Dall’osservatorio, oltre che la volta stellare di notte, si apprezza meglio l’unicità del Ventoux.
Lassù, un blocco di calcare bianco. Laggiù, una selva di pini della macchia mediterranea.
L’ascesa, venduta come 15.7 km, da Bédoin è in realtà 20.8 e suddivisibile in tre settori.
6 chilometri di falsopiano che rinforza, in mezzo ai vigneti, fino a Saint Estève.
10 di foresta, quasi al 10 %, agonici, interminabili, lunghi rettilinei dove la bici non scorre.
Da Chalet Reynard, un mondo nuovo (sogno o incubo): il 6 percento viene imbastardito dalla mancanza d’ossigeno e dai venti. Marini da Sud, Mistral da Nord.
I 2800 metri dell’epilogo, dalle parti del Memorial Simpson, sono una scalinata: un tratto tocca il 13%.
Tre foto tre dal passato.
Nel 2013, la frullata (scientifica: in un punto studiato a tavolino) di Chris Froome che seminò Alberto Contador.
L’assolo di Eddy Merckx, 8 chilometri per omaggiare il (suo) manager alla Faemino, Vincenzo Giacotto, morto quella mattina: era il 10 luglio 1970.
Al traguardo, stravolto, il Cannibale ebbe bisogno della bombola d’ossigeno.
La superlativa crono di Jeff Bernard, che sbaragliò la concorrenza (Lucho Herrera a 1’39”, Perico Delgado a 1’51”, Fabio Parra a 2’04”), parve l’ouverture della carriera di un fuoriclasse.
Era il 1987, il Tour più duro dell’era moderna. Avrebbe perso la maglia gialla a Villard de Lans, vittima di una congiura dei rivali e dell’implosione dello squadrone Le Vie Claire, e smarrito il Tour nel fondovalle che conduceva a La Plagne.
50.3 km all’ora a Caromb, 40 chilometri al cocùzzolo, 30 gradi all’ombra. Sono scappati in 36, molte vecchie conoscenze di questi (16) giorni. L’immarcabile Healy, l’orgoglioso Alaphilippe, Arensman (vincitore a Superbagnères), Campenaerts, il deludente Santiago Buitrago, Enric Mas, Simone Velasco (il miglior tricolore in classifica: quarantanovesimo), ecc.
Stamattina non è ripartito van der Poel per una broncopolmonite: nel plotone gira il virus, le andature folli e il caldo esagerato amplificano i malanni, con le difese immunitarie abbassate dalla fatica.
Ai piedi del Monte Calvo, sei fusti di spessore vanno un minutino avanti. Matteo Trentin, a tutta per Alaphilippe, coppia Tudor, Mas, Arensman, Velasco e Jonas Abrahamsen.
A Bédoin il pubblico è gia tridimensionale (..), hanno chiuso la strada alle macchine sabato, si sale solo a piedi o in bici ma la fiumana è impressionante.
Lou Lou attacca l’approccio manco fosse il Poggio (sigh); dopo il virage Saint Estève, Mas se ne va via convinto, ignaro che manchino 14 chilometri e che questo è il maledetto Ventoux.
Dietro, a più di 6 minuti e mezzo, il loop del ciclopico Nils Politt sottolinea la volontà dell’UAE Emirates XRG di congelare la contesa.
Quando arrivano i Visma, la danza aumenta di BPM. Prima Van Aert, poi Kuss, picchiano: ai meno 11 Felix Gall (settimo nella Generale) molla, in difficoltà.
90 pedalate al minuto, il 27 e il 28 dietro girati vorticosamente. Nel trambusto, un bambino con un cartellone che recita “739 km a Parigi”. Ai 9, i vagoncini della maglia gialla sono (appena) 10 con un Sepp Kuss vintage 2023.
Che parla all’auricolare e rallenta, Carlos Rodriguez ci prova e – all’improvviso – scatta Vingegaard. 200 metri di “aperta” sui pedali, Pogacar (seduto) digrigna i denti ma non lo molla, a 28 km/h.
Il danese trova Tiesj Benoot, dalle frattaglie della fuga, siamo ancora nel bosco e – sul 10 % senza l’ipotesi di una semicurva – conduce il dinamico duo ai 20 all’ora. Secondo scatto di Jonas, ai 6 e mezzo, Tadej impassibile non cede un centimetro.
Davanti stanno facendo casino, almeno quanto i tifosi che assiepano Chalet Reynard: un’arena coi gladiatori in bici e i leoni di peluche. Mezzo chilometro di Campenaerts, a fare la scorta a Vingegaard, che forse rifiata.
Healy, sulle pietre, vede Mas. Lipowitz rimbalza indietro, i tifosi sembrano zanzare impazzite.
Vento per tre quarti contrario, l’irlandese e Valentin Paret Peintre al gonfiabile dei 4 km agganciano Mas al dessert che, 500 metri dopo, pare desistere. Ma Healy e Paret Peintre si scattano in faccia e si fermano.
Nello stesso punto, terzo allungo di Vinge, che non preoccupa la sfinge in giallo.
Ai meno 2, Healy e Paret Peintre vanno su a 13 km/h e permettono il rientro di Buitrago e Mas.
Ai 1500 stavolta è Pogi a provare: sullo stradone diritto, i quattro davanti, i fegatelli della fuga, le moto, il corteo, vengono visti dai duellanti.
Ilan Van Wilder, del Wolfpack come Paret Peintre, ritorna sotto e li salva facendo l’andatura. Ai 250, botta di Healy seguito dal francese e da un Buitrago con l’acido lattico nelle orecchie.
Dopo la curva, Paret Peintre affianca Ben e lo sorpassa, sulla rampa (che sfinisce) dell’arrivo lunare.
Prima vittoria bleus dell’edizione 112, Valentin ringrazia Van Wilder e conferma la fama, crescente. Il fratellino di Aurélien pesa sì e no 50 chili ed è una versione post moderna dello scalatore puro. Briciola PP è un aggiornamento della Pulce Vicente Trueba.
Nel 2024 aveva vinto al Giro, a Cusano Mutri, quest’anno si era imposto in Oman, sulla Montagna Verde. Alla Decathlon hanno provato, invano, a farlo ingrassare (ingrossare).
Pogacar – a 43″ – sprinta (la ruota anteriore si alza..) e stacca di 2″ un incoraggiante Vingegaard che, nella fossa improvvisata dei fotografi, cade senza graffi e conseguenze. I mutanti hanno fatto gli scooterini, sul Monte Calvo, come testimonia il loro 54’41” (54’43”) di parziale.
I 500 metri conclusivi a 32 all’ora. 21 orari complessivi, 1803 di VAM, stimati 6.5 watt al chilo per Tadej.
Roglic, capitano e veterano, accompagna la maglia bianca Lipowitz (a 1’51” e 1’53”), che stacca l’altro bocia Onley (a 2’29”). Gall a 3’33”, Vauquelin a 3’42”.
A 5’11” Johannessen, che ha bisogno dell’ossigeno e dell’ambulanza: scene da Mont Ventoux.
Nelle retrovie, centoquindicesimo Jorgenson a 26’09”, centoventiduesima la maglia a pois Lenny Martinez. Fase di cottura avanzata.
Estratto di amarena, ingurgitato come fosse l’elisir di lunga vita, tra mezz’ora un pasticcio di maltodestrine, glutamina e aminoacidi, poi un po’ di riso: così si deve fare, quattro giorni all’alba, per scorgere domenica la torre Eiffel.
24 luglio, Vif-Col de la Loze

Mercoledì a Valence, volatone come antipasto, primo piatto e dolce. Che, sotto l’acquazzone, si trasforma in una gara a eliminazione su asfalto.
Tombano dalla flamme rouge, Merlier, Girmay, Groves, Dylan Groenewegen. Nella matassa di bici, anche Carlos Rodriguez che si frattura il bacino.
Lo sprint a ranghi disuniti, ne rimangono in piedi una (sporca) dozzina, se lo aggiudica di mezza ruota Milan su Jordi Meeus, che sarebbe l’ultimo della Generale. Quinto Davide Ballerini, sesto Alberto Dainese.
La maglia verde, con queste regole, è ormai del friulano.
Che ha un potenziale, con i wattaggi che sprigiona, da Mario Cipollini (Marcel Kittel). I margini di Jonathan sono evidenti, già nel gesto biomeccanico della volata: aerodinamica, dispersione di energia, traiettoria. Il manubrio strattonato, la testa su e giù, il busto alto.
Anche tra gli sprinter il fenomeno della linea verde, di atleti (sempre più) giovani, è una realtà agonistica. I top 3 (Milan, Meeus, Tobias Lund Andresen) fanno 24 anni e 346 giorni di età media e il quarto, Arnaud De Lie, è un classe 2002.
“Quasi tutte le tappe per velocisti sono monotone. Sono bloccate dalle squadre dei velocisti che creano una coalizione.. Il loro bloccare il gruppo farà si che non ci siano più tappe per velocisti.”
(Thierry Gouvenou)
I tuoni del direttore tecnico ASO certificano che il gradimento, lo share, se ne fotte della tradizione e della logica (fisiologica). L’altra faccia della stessa medaglia, che fa tanto argent, è il tappone alpino della Savoia.
Un massacro alla catena, 5450 metri di dislivello in 171.5 km: Col du Glandon, Col de la Madeleine e Col de la Loze.
Prevedendo lo stile di corsa, simil dilettanti anni ’70, un’esagerazione.
Diapositive sparse del pomeriggio su e giù per i monti. Sul Glandon, a sorpresa, anticipano Roglic e Gall. Dentro, nel fugone, Jorgensen, Wellens, Arensman, Ben O’Connor. Sequenza Louis de Funés di Lenny Martinez che osa, in mondovisione, una retro pusset di mezzo minuto col diesse in ammiraglia.
La Visma, come annunciato, è carica a pallettoni sulla Madeleine, archetipo della salita hors catégorie delle Alpi: lunghissima (19.2 km), senza tregua (7.9 %) e in quota (2000 metri).
Van Aert accende la miccia, Campenaerts sventra il gruppo, Yates (Simon) rifinisce. A 5 chilometri e mezzo dal gpm, rimangono Kuss, Vingegaard, Pogacar e Lipowitz, con un elastico degno del Cirque de Soleil. A 71 chilometri dal Col de la Loze attacca il Re Pescatore.
In 10 chilometri, i vagoni Visma hanno recuperato 3 minuti a un drappello con Roglic, Gall, Arensman, isolando la maglia gialla.
Jorgenson, che attendeva il suo turno, mena a 20 all’ora sull’8 percento, contro un vento impetuoso. Il Col de la Madeleine è un prato, unico orizzonte il cielo e le nuvole, solcato da una striscia grigia. E’ spuntato il sole, la pioggia minacciata non si è ancora vista.
Sono in sette – i due Visma, Pogacar, Roglic, O’Connor, Gall, Einer Rubio – e in discesa Jorgenson prosegue un forcing che rivela l’ultima spiaggia dei calabroni.
Quando l’americano si rialza, in un pianoro estenuante, la contesa prima si neutralizza e poi si ribalta. Jorgenson insegue O’Connor e Rubio che leggono l’attimo fuggente, la melina dei big, e vanno a giocarsela. Sul gruppo del leader rientrano tutti i pezzi grossi (Lipowitz, Onley, Vauquelin) che parevano alla deriva. A Moutiers, anarchia. Tadej incollato ai tubeless di Jonas, che manca due borracce al rifornimento, mentre Lipowitz – un peccato di gioventù – va via, convinto di essere alla Manica-Oceano.
Tutti vanno a cercare gel e borraccini. Devi mangiare ogni quarto d’ora, sui 90 grammi in media all’ora di carbo. La banana e il panino al prosciutto sono stati sostituiti dal gel al mango e l’isocarb al limone.
Si sbatte sul Col de la Loze, con Marc Soler (!) che fa l’andatura al capitano Pogacar e i due (tre) davanti con 3’45” di bonus. La montagna ha partorito Topolino.
L’elicottero ci mostra il comprensorio di Courchevel, uno dei più grandi del mondo, 60 chilometri di piste da sci, dove nel 2030 si faranno le Olimpiadi invernali.
Nelle stesse ore, in Italia, Pantalonia, il Presidente Sergio Mattarella non firma un provvedimento inserito, di nascosto, nel Decreto Sport. Z-alvini voleva prolungare fino al 2033 la società Milano-Cortina: clientelismo e poltrone e familismo amorale e propaganda.
Si deve salire a 2304 metri, 26 chilometri infiniti come un pranzo con la suocera, pendenze irregolari e la ciclabile dal versante Meribel, per chiudere l’avventura.
Verso il trampolino di Courchevel Praz, amarcord Rogla, O’Connor parte in tromba: vuole e può ripetere l’impresa della Vuelta ’24, a Yunquera.
Jorgenson, che senza benza va alla deriva, è l’immagine della resa Visma. Al pari dell’andamento lento di Simon Yates, pacer del plotoncino giallo. Ai 12 dal traguardo, l’UAE Emirates XRG piazza la bandierina con Narvaez che, di ritmo, fa sul serio e affonda un po’ di superstiti.
Fasi di pubblico da Alpe d’Huez, anche per il tasso alcolico mostrato, Lipowitz viene inghiottito e saltato. Intanto, all’arrivo, grandina. Ai 6 cominciano la pista ciclabile e i tratti – a puntate – all’11 e 10 %.
Cambia il panorama: una schiena d’asino, con i tifosi assiepati, la pista d’atterraggio, le mucche che brucano.
Il gemello dell’UAE, Adam, apre il varco per Pogi, Vinge, Rogla, Onley e Gall. Lipo paga l’azzardo e affonda. Inizia a piovere, la folla si divide tra nudisti e quelli con la mantellina a pois. Ai 1300 metri allungo decorativo di Vingegaard, Pogacar e Onley (un cagnaccio) non fanno una piega, Roglic rimbalza.
Sulla ciclabile, nebbione e pioggerella, O’Connor la vince di cazzimma. Festa aussie.
Ai 350 metri Pogastar inserisce la marcia più alta, salta l’ottimo Rubio, Vingegaard si pianta un po’.
Il calivo si mangia i corridori, Pogacar digerisce il Tour numero 112.
A giugno, in quel di Vinadio, Tadej – ripetendo il ritiro pre Tour ’24 a Isola 2000 – era già in pieno allenamento, scaricando le tossine del Delfinato vinto il giorno prima. Al bar, beveva cappuccino e Coca Cola.
Salendo cote de Domancy e Combloux, aveva spaventato Jonas e Remco: erano bastati 100 metri della salita di Bernard Hinault, per fare la differenza, seduto.
Proprio là dove, a cronometro, aveva preso la bastonata più forte nel 2023.
C’è una teoria della vendetta nelle azioni dell’iridato: la Grande Boucle ’25 è passata nei luoghi dove Pogi soffrì. Hautacam, Ventoux, Col de la Loze, amarcord danesi e Visma. Con la panna montata di un tracciato favorevole a Vingegaard.
..

Pallini gialli sparsi, bevendo un gin gallese a Montmartre, in onore della tappa 282 (e ultima) nella carriera di G Thomas: abbiamo visto pure la più bella kermesse del mondo. Pioggia, coraggio, folla, follia, Tadej, Wout.
1
Il Tour comanda, detta le leggi del ciclismo (e dello sport europeo che tollera il giusto Eupalla) imponendo un immaginario coloratissimo.
Che il ciclismo sia lo sport del futuro, dopo essere stato qui, nel vecchio continente, lo sport del passato, lo acclarano le pagine – non solo generaliste – su Hulk Hogan.
Il ciclismo, piaccia o meno, insieme a qualche altro sport classico (?), non più i giochi, è l’antimateria (pop, tecnologica, verista, scientifica) di quella spazzatura radioattiva.
2
“Mi chiedo perché sono qui. Voglio solo tornare a casa.”
(Tadej Pogacar)
44, 47, 39, 44.6, 47, 54, 42, 46.4, 41, 53, 52, 51, 56, 52, 43.5, 43, 33, 44.
Queste sono le medie della prima ora di gara, nelle 18 tappe in linea del Tour ’25 (prima della Mantes-Parigi).
La terza settimana è stata un calvario a tutta velocità per l’intero gruppo. Bastava vedere come era infagottato Pogacar, durante le premiazioni, o le rughe di Vingegaard (pelle e ossa) a La Plagne.
Il Tour non dovrebbe permettersi un disegno così impegnativo: 2 cronometro individuali e 19 frazioni che ricalcano una classica a chilometraggio ridotto (ma non troppo).
Lo share e i like vanno benissimo, ma la demolizione psicofisica dei corridori – per lo spettacolo – è un concetto che ci ripugna. Fin dal Tempo di Albert Londres.
3
Persiste un Grand Canyon tra i due freak, che fanno 1-2 sul podio ai Campi Elisi per la quinta volta consecutiva, e i resti della mercanzia. Che Narvaez, uomo chiave di Pogi, finisca tredicesimo a 1 h 4’36”, lui che si rialzava dopo l’ultima trenata per il capitano, spiega le differenze tra la nobiltà e la classe media nel World Tour. Jhonatan, che potrebbe vincere (tappe) per conto suo, becca un milione di euro.
4
26, 28, 24, 22, 27, 25, 24, 35, 24, 26.
Guastata (..) dalla presenza del vegliardo Roglic, l’età media della top 10 rivela ancor più che questo ciclismo, quello dei watt, dei 12 rapporti dietro, delle app per calcolare le calorie da assumere, non è uno sport per vecchi.
Dal campionissimo Pogacar, che a 20 anni vinceva il Tour de l’Avenir, al sorprendente Jordan Jegat (decimo), che a 20 anni lavorava in fabbrica.
Non era mai accaduto che il podio della Grande Boucle replicasse quello del Critérium du Dauphiné.
5
I paesi tradizionali inseguono o arrancano, se consideriamo la classifica generale. Un italiano spendibile l’abbiamo scorto (a maggio), è Giulio Pellizzari, e ci auguriamo che non venga buttato (troppo) presto nell’arena gialla, con le belve feroci, al pari di altri.
Il Tour non è uno scherzo, ti scortica. Complice il ridimensionamento di Mas e Rodriguez, erano eoni che uno spagnolo non timbrava i Primi 20. Juan Ayuso, principe UAE alla corte del Re di Komeda, assunto Giovanni Lombardi come agente, si dice stia cercando di rompere il contratto con gli emiratini (scadenza, 2028). Al Giro, forse ha sofferto l’ombra di Isaac Del Toro.
Vauquelin, 24 anni, talentuoso, prova a trasformarsi da uomo per le salite esplosive e brevi a tappista adatto ai monti con percorrenze superiori ai 30′.
I francesi, Godot che aspettano un nuovo Hinault (Fignon), stravedono per il bimbo (data di nascita, 24 settembre 2006) Paul Seixas. Che sembra anche a noi un prescelto, ma la pressione che grava sul lionese dovrà essere gestita almeno quanto i piani d’allenamento e di programmazione del calendario.
6
Autore di una doppietta clamorosa a Superbagnères e La Plagne, precedendo i mostri, attendavamo questo Arensman da un po’. Se matura, lima la sua discontinuità, il Pellicano olandese è un soggetto da piani altissimi nei Grandi Giri.
Abbiamo un altro Johan van der Velde, meno cavallo pazzo del mattocchio ibernatosi nella discesa del Passo Gavia.
7
Le date di Los Angeles 2028, che prevedono le crono il 19 luglio e la prova su strada maschile il 23, illustrano la tracotanza del sistema CIO nei riguardi del resto del globo terracqueo. Probabile che ASO anticiperà il Tour. Noi invece siamo tranchant: il ciclismo professionistico ha vissuto senza le Olimpiadi fino al 1996, boicottare il baraccone sarebbe un gesto di bon ton.
8
Altra sovrapposizione, abbastanza ingenerosa: a Plumelec prima tappa del Tour de France Femmes avec Zwift. Tra Demi Vollering, Pauline Ferrand Prévot e Katarzyna Niewiadoma voleranno stracci.
Si parte con Marianne Vos in maglia gialla ed è sempre cosa bella e giusta.
“Il ciclismo, questo sport al limite di tutti gli sport, fa parte delle Belle Arti.”
(Alfred Jarry)