Il 21 giugno 1955 Michel Platini ha compiuto 70 anni.
Un incrocio curioso della cronaca, con incidente stradale annesso, che abbia soffiato sulle candeline mentre cominciava, tra gli squilli di tromba dei media (comprati a buon mercato) e gli spalti mezzi vuoti, il Mondiale FIFA per club.
A Giuda Infantino daremo il giusto spazio, poco, più interessante snocciolare i premi partita del (nuovo) torneo.
1 milione di dollari per un pareggio, 2 per una vittoria, 7 e mezzo per gli ottavi, quasi 14 ai quarti, 21 per le semi, 30 per la finale, 40 per la vittoria.
Negli stessi giorni, in Italia, la Procura di Taranto chiedeva il fallimento del Taranto, un mese dopo quello della Lucchese.
Senza i 700000 euro di fideiussione, la SPAL riparte dall’Eccellenza, il Brescia Calcio è morto.
Con un bel 2 a 2 negli States, si sarebbero salvate tutte.
Raccontare Le Roi, significa ricordare che – un po’ di Tempo fa – siamo stati Re.
Il calcio italiano e la Serie A comandavano il mondo.

Considerando il livello – eccelso – della nazionale di Enzo Bearzot, espressione di un campionato autarchico, furono gli innesti degli stranieri a provocare il boom.
Due arrivi complicati, vittime le milanesi, segnarono l’inizio degli anni ’80, dell’età dell’oro.
Paulo Roberto Falcao, nell’estate 1980, fu quasi del Milan: il processo scommesse orientò il fuoriclasse brasiliano verso le proposte di Dino Sani e della Roma.
Che se prima era la Rometta, con Falcao aprirà un ciclo vincente.
Platini, nel 1978, con le frontiere ancora chiuse, firmò un impegno con l’Inter.
Quando, due anni dopo, rinunciarono, c’era di mezzo un infortunio alla gamba destra.
L’Inter scelse Herbert Prohaska, la Juve con “un tozzo di pane” (definizione dell’avvocato Gianni Agnelli), 1 milione e 200mila franchi, se lo assicurò.
La Naziojuve divenne un’irresistibile armata calcistica, Ivanoe Fraizzoli fece la figura del pirla.
Per i bimbi anni ’70, Platini era il fenomeno di una squadretta, il Nancy.
Il calcio straniero (..), come l’NBA o il Tour de France, un rito esotico di filmati in differita e foto a colori.
E se Zico e Diego Armando Maradona dovevamo immaginarli, più che vederli, Michel si materializzò a Napoli l’8 febbraio 1978, il pomeriggio di un’amichevole tra Italia e Francia.
Platoche mostrò se stesso, il talento extra large, uccellando Dino Zoff su punizione, due volte: la prima fu annullata dall’arbitro, la ripetizione siglò il 2-2.

Platini è stata una delle massime espressioni di quel calcio, uno dei geni, che va da Valentino Mazzola a Zinedine Zidane.
Leggeva ogni cosa sul campo, un secondo, due secondi nelle giornate migliori, prima degli altri.
Tecnicamente, sapeva fare tutto: destro, sinistro, testa, stop, gioco senza palla.
Un giocatore senza eredi integrali, qualche cosa di Kaka, Zizou (che non vedeva la porta come lui..) nell’occupazione tecnica del match.
Non era un atleta alla Johann Cruijff, aveva polmoni così così, ma del Profeta del Gol ne fu un’estensione (trequartistica).
Se ne aveva voglia, giocava su 60-70 metri di prato: faceva accadere cose, per sé e per la squadra.
Lanci di 50 metri sulla monetina, metteva un compagno davanti alla porta con un passaggio.
Appariva al portiere avversario, all’improvviso.
Sempre al posto giusto, nel momento giusto.
Regista classico, centravanti, Raymond Kopa e Just Fontaine insieme.
Giocava in frac, col farfallino, divertito e dispettoso.
La maglia più lunga, strategicamente, per coprire sedere e pancia, i calzettoni bassi senza parastinchi, ai piedi le Patrik nere.
La caviglia destra aveva avuto problemi, seri, al Saint Etienne.
Una vecchia frattura, col malleolo saldato maluccio: si inventò altre maniere di calciare, non solo le punizioni.
Non si ambientò subito a Torino, ma dello squadrone bianconero divenne la (super) stella.
Tre titoli di capocannoniere della Serie A, in anni con difese brutali (e difensori competenti): imparò a dar palla ancor più di prima, per salvare le gambe.
In campionato faceva sponda con terzini (Antonio Cabrini) e centrocampisti (Marco Tardelli) fuori categoria, sfruttava gli spazi creati da Paolo Rossi (quanto era sottovalutata l’intelligenza tattica di Pablito..), quindi puntava la porta.
In Europa arretrava, cercava lui gli spazi, e imbeccava il Bello di Notte Zibi Boniek, che in velocità era irresistibile.
La tragedia dell’Heysel tradì quella generazione e quello squadrone: non se lo meritava nemmeno il Liverpool, malgrado fosse il vessillo di quella cultura pop (ebbene sì) di merda.
“Quando cade l’acrobata – il trapezista – entrano i clown.”
Quella partita la Juve non voleva giocarla, ma dovevi dare 3 ore di tempo all’esercito e alla polizia belga, impreparata e grottesca.
Se non fosse che in Italia tutti sono (erano) ossessionati dalla Juve, e tifosi (a favore o contro), quella data – 29 maggio 1985 – andrebbe onorata per descriverci, come società (dello spettacolo).
Altro che San Francesco d’Assisi.

Il 1984, la stagione del suo apice sentimentale e agonistico: la tripletta Serie A, Coppa delle Coppe e l’Europeo in casa, il secondo Pallone d’Oro.
Michel dispensava football, rallegrava il padrone della ferriera (l’Agnelli con le basette) e il pubblico, stabiliva nuovi standard qualitativi.
Se nella Juve la contesa tattica con il mister Giovanni Trapattoni era un gioco delle parti, con quei compagni poi (Gaetano Scirea oggi farebbe il regista avanzato..), nei bleus la scapigliatura, l’essere calcio champagne, fu una conseguenza (quasi) logica.
Le Roi era il vertice avanzato del quadrato magico, con Jean Tigana, Bernard Genghini e Alain Giresse: in pratica, quattro 10 (!) a spiegare calcio.
Il Platini del giugno ’84 viveva (felice) in uno stato di grazia, tecnico, coadiuvato pure dall’innesto a centrocampo del polmonare (..) Luis Fernandez.
9 gol in 5 partite, l’impressione che certe azioni le vedesse con una telecamera (solo sua) sopra lo stadio.
Evidente che quell’istinto fosse figlio di un ragazzino cresciuto a pane e football, osservando babbo Aldo allenare.
I Platini arrivarono in Lorena dal Novarese, con la valigia di cartone, Gianni Brera sottolineava quell’italianità spostando l’accento sulla prima “i”.
I cicli vincenti iniziano e finiscono, a volte decisi dal battito di una farfalla.
Quella Francia, fortissima, nelle rassegne iridate ebbe il vento contro nelle occasioni sbagliate.
Espana ’82, lo zenit del calcio novecentesco, la Notte di Siviglia.
Appena tre giorni dopo Italia-Brasile al Sarria, per inquadrare meglio la caratura di quell’epoca.
Platoche giocò un match clamoroso, regista totale di una Francia che a tratti maramaldeggiò la Germania (Ovest).
Che era inferiore, ma non moriva, affidata all’estro del motorino Pierre Littbarski e al sapere concreto di Paul Breitner.
Le maldinate di Marius Trésor, l’uscita omicida di Harald Schumacher su Patrick Battiston.
Al Sanchéz-Pizjuan, quella sera, fu più un romanzo che una partita di calcio.
Che di gare memorabili il nostro, vincendole o perdendole, ne ha disputate.
La sua Juve, già ritoccata (non c’erano più Claudio Gentile, Boniek, Tardelli, Rossi..), scalò l’ultimo 8000 a Tokyo, nel fortunato esperimento nipponico della Coppa Intercontinentale.
Un altro pareggio rocambolesco, l’altro Michele (Laudrup) che impazzava, l’Argentinos Juniors di entusiasmo e cazzimma.
Finì col rigore di Platini, palla da una parte, portiere dall’altra, in una sceneggiatura cinematografica; compreso quel gol al volo, in acrobazia, annullato da un arbitro sprovvisto di gusto estetico.

I Platinologi ne studiavano l’umore: era (é) ironico, cinico, brillante, soprattutto quando non era (molto) in forma.
Nella primavera del 1986, il suo ultimo scudetto, quello del seppuku romanista contro il Lecce, le battute erano irresistibili, agrodolci.
Arrivò al Mondiale messicano portandosi dietro, da mesi, la solita pubalgia.
Un suo gol, facile facile (per lui), opposto a un’Italia pallidissima, chiuse il ciclo glorioso di Bearzot.
I quarti col Brasile, una resa dei conti, melodrammatica, una specie di “C’eravamo tanto amati” della generazione post Pelé e Cruijff.
L’1 a 0, la segnatura più banale della carriera e l’ultimissima con quella maglia, due squadre (forti forti) con la clessidra rovesciata che correva, la recita finale – senza lezione incorporata di box to box – di Falcao.
L’ultimo ballo si concluse ai rigori, sbagliarono (cotti dal sole, dall’altitudine, dal chilometraggio) sia Michel che Zico, vinse una Francia che si sarebbe consegnata, sfatta dalla fatica, alla Germania Ovest in semi, anche a causa di una papera di Joel Bats.
Il commento di Platini?
“Ho fatto i miei calcoli. Nel 1982 siamo arrivati quarti, stavolta terzi, nel 1994 dovremmo farcela..”
Non sappiamo se Platini si sia sopravvalutato, dopo la parata trionfale di Francia 1998, o se abbia sottovalutato il macchinario.
A Michel venne la pazza idea di comandare il foot dalla cabina di regia, nella stanza dei bottoni, quella che produce soldi e potere senza soluzione di continuità.
E’ finita – male – nemmeno fosse l’epilogo, indimenticabile, di “Greed” di Erich von Stroheim.
I deserti, quello di Mojave e del Qatar, non sono solo entità geofisiche dell’abbandono.
Quei 2 milioni di franchi svizzeri pattuiti, il comitato etico (sigh) della FIFA, l’abbraccio mortale del padrino Joseph Blatter.
Sul luogo della scena, talpa il procuratore capo dell’Alto Vallese Rinaldo Arnold, il segretario UEFA Giovanni Infantino, che aveva suggerito a PSG, City e alle russe come raggirare il fairplay finanziario di Platini, che si prende il giocattolo.

Platoche, dopo dieci anni, dalle aule di tribunale ne è uscito intonso e ancora più scettico, distante, dal suo (ex) mondo.
Che oggi vale (?) 50 miliardi di dollari.
Un barnum itinerante, alla ricerca ossessiva di feste e funerali al caldo, in mondovisione.
E’ un problema di quelli come Michel, che del gioco hanno ancora un’idea creativa e amorale, pensare che il calcio potesse rimanere a quei gesti irreplicabili e a quella bellezza sporca.
Il salto di specie, con la tecnologia e la finanza, è stato straordinario.
Il caro vecchio pallone, identitario (stile tecnico e appartenenza), provinciale e operaio, pure corrotto e feroce, non esiste più.
Al suo posto, rilevate le simbologie, le apparenze, un reality globale in movimento.
Una fiction modificabile in diretta, un evento simulato in ogni suo dettaglio: giocatori, allenatori, arbitri, spettatori, media, protagonisti di un gigantesco gaming.
Che ci (vi) offre Milan-Como giocata a Perth e i Mondiali 2030 recitati in Arabia Saudita, a Natale, in impianti astronave coi led e un jumbotron.
“Merdre!”
