DOROTHEA, IL BIATHLON E I MEDIA INFETTI. LA COPPA CON L’ASTERISCO

I venticinquemila di Anterselva (in maggioranza tedeschi, sottolineiamolo…) certificano la primavera felice del biathlon, anche in Italia.

Sono la conferma, l’ennesima, del sorpasso sentimentale operato da questo sport ai danni del caro, vecchio, sci nordico sempre meno fondo.

Lo scia e spara, dall’era di Magda Neuner (e dell’Ole Einar Bjoerndalen dominante) in poi, vende un immaginario col giusto compromesso tra rinnovamento e tradizione.

Quattro specialità individuali quattro, nessun regolamento astruso, una narrazione che esalta le fortune di una specialità classica quanto televisiva e pop.

Laddove, nel fondo, le sprint sono diventate centrali, culturalmente, al pari dell’umiliazione della (leggendaria) 50 chilometri in linea, un’imitazione bonsai del ciclismo, e della difesa (norvegese…) dello stile alternato.

Un caos, a dispetto dei Johannes Klaebo di quel mondo.

A livello femminile, è stata la rassegna del duo Dorothea Wierer-Marte Roeiseland, campionesse (entrambe classe ’90) all’apice della carriera.


Dorothea Wierer col bottino, storico, dei mondiali di Anterselva.

Wierer realizza, al cento per cento, le promesse dell’evo giovanile, dei mondiali juniores di Nové Mesto 2011.

Lo fa sulla pista di casa, dove crebbe, nell’occasione più importante: di livello assoluto, la prima sessione a terra e la prima in piedi, intonse, nell’inseguimento di martedì 18.

Una gestione tattica e tecnica sensazionale, da (piccola) Magdalena Forsberg.

Eppure, malgrado le quattro medaglie (due ori e due argenti), la Doro migliore è stata quella – iperbolica.. – della staffetta.

Tra gli uomini, la vittoria (netta) di Johannes Thingnes Boe nella mass start ha spezzato una specie di sortilegio norvegese, interrompendo l’egemonia bleus guidata dal grande Martin Fourcade (al passo d’addio?).

Momentum dei Mondiali tutti, l’inseguimento con Boe e Fourcade, i fenomeni, che si consumavano in un duello che, alla fine, portava la gloria al rampante Emilien Jacquelin, svelto di gambe (in volata) e di testa.

In ottica Coppa, verso il bis di Dorothea, attenti alla rabbia agonistica di Hanna Oeberg, tre legni (tre quarti posti) prima del bronzo nella domenica conclusiva, e un potenziale da (nuova) regina.

Il resto, nel bailamme di un evento, poiché le vittorie della Wierer lo sono, non è mancia.

“Vivo sugli sci ma adoro i tacchi alti” era il titolo digitale de La Repubblica, a commento di uno dei trionfi della bolzanina.

L’impreparazione culturale dei media generalisti, in tempi (stupidi) di caccia all’untore, riverbera ancora meglio in presenza di un’atleta (pure bella e intelligente…) di successo.

Gli inventori della didascalia “sport minori”, alfieri invece delle tre c (calcio, culi e cazzate), non contemplano altro al di fuori dello stereotipo.

Allora, per commentare il secondo trionfo di Wierer, il maggiore quotidiano italiano sportivo lo paragona al gol di Fabio Grosso, ai tedeschi (sic), nel 2006, a Dortmund.

Una miriade di spunti tecnici, storici, scientifici legati alla bellezza del biathlon e – come risultato – il sotto vuoto spinto: la Futbalina a mo’ di soma per il lettore, trattato da semianalfabeta compulsivo.

E’ la stessa ricetta dell’hamburger mediatico della foto con il cittadino mascherina sul viso: infotainment spazzatura.

Ci è toccato anche ascoltare, in una trasmissione televisiva (interessante…), che Alberto Tomba divenne un divo perché non aveva un cognome impronunciabile.

Gli altoatesini stigmatizzati per censo e pronuncia.

Vorremmo far notare che, senza quell’enclave, l’Italia sarebbe quarto mondo, non solo negli sport invernali: altrimenti, vedendo giocare Jannik Sinner, noi Boris Becker nato a Bolzano (Rino Tommasi dixit) non ce lo meriteremmo.

Una Coppa del mondo di sci alpino, femminile, con l’asterisco, comunque vada.

Podio della Stelvio 2018, la libera del 28 dicembre. Beat Feuz, terzo, insieme alla coppia di assi altoatesini Christof Innerhofer e Dominik Paris (il vincitore).

Abbiamo rimarcato – anticipando i tempi – che Federica Brignone è il più grande talento tricolore dai tempi di Deborah Compagnoni; non possiamo però non definire falsata la stagione del circo bianco donne.

Dalla tragedia famigliare di Mikaela Shiffrin, che ha tolto dalla scena l’unica vera fuoriclasse dell’universo sci.

A Crans Montana, la combinata ci ha mostrato un SuperG di lignaggio e uno slalom così così: dopo la prova della Brignone, pettorale numero uno, la neve era già sapone.

Non sappiamo quale sia stato il problema di Petra Vhlova: i dolori al ginocchio (sinistro), il manto sfatto o la cabeza.

Di sicuro, quei cento punti (buttati nel cesso dalla slovacca) potrebbero decidere la contesa – per il trofeo di cristallo – tra lei e la Brignone.

La settimana prima a Kranjska Gora, la domenica dello speciale, una rivelazione.

A Crans Montana – con due successi consecutivi – è forse tornata, definitivamente, Lara Gut-Behrami…

La prima manche mattutina, col ghiaccio, su una Podkoren difficile (tracciato e pendio), col muro che tendeva a una gara maschile, un bel po’ delle atlete del primo gruppo di merito sono parse impreparate.

Tecnicamente e atleticamente, con l’eccezione di Anna Swen Larsson, a disagio.

Abbiamo pensato al divario che avrebbe scavato la Shiffrin assente: come sta succedendo negli uomini, dove nessuno può sostituire Marcel Hirscher, i campionissimi si comprendono meglio – la loro grandeur – quando sono assenti.

Mentre affastellano vittorie, accumulando primati, ci si abitua alla loro presenza.

Scambiando i fattori (tecnici!) dello spettacolo agonistico: l’eccezionalità diventa routine, la mediocrità produce suspence e divertimento.