FEDE E DEBORAH, SORELLE D’ITALIA. BULIMIA MEDIATICA, KOBE E LA PARTE OSCURA DI STERNVILLE. NOLE A DISPETTO (DI TUTTI)

Federica Brignone, domenica scorsa in Russia, ha vinto la sua quattordicesima gara di Coppa del Mondo. Per i parziali (storici), la figlia di Maria Rosa Quario è a un passo da Isolde Kostner e a due dalla plurivittoriosa italiana, Deborah Compagnoni.

Quasi un peccato che il successo sia arrivato a Rosa Khutor, in un SuperG che pareva Coppa Europa, in condizioni climatiche incerte e nel deserto di un luogo dove lo sci alpino, culturalmente, non esiste. Fede – già da qualche anno – è la più forte tricolore dai tempi della Compagnoni: tecnicamente ineccepibile, versatile, sempre più a suo agio come velocista (pura).

Nessuna, oggi, come lei: la sua piega, estrema, in curva, sullo spigolo, è il marchio di fabbrica di una fuoriclasse.

La Brignone, nei tempi della società liquida, ha sempre sofferto un’esposizione poco generosa rispetto al valore e al potenziale esibiti: meno personaggio di altre, sconta anche la sopravvalutazione – nello sci alpino – degli allori olimpici.

Federica Brignone, lo scorso 12 gennaio, nel SuperG della combinata di Altenmarkt-Zauchensee che vincerà.

E’ la capintesta di una squadra, ai massimi livelli, fortissima: con Sofia Goggia, l’antimateria di Federica in ogni cosa, e Marta Bassino (i piedi d’oro di una predestinata..).

Hanno il privilegio di competere nell’evo di Mikaela Shiffrin, colei che con Annemarie Moser-Proell è il più grande talento apparso nello sci femminile: le vittorie, in un contesto del genere, valgono ancora di più.


Un discorso sullo sport e la pandemia di stupidità, bulimica, che riduce ogni argomento ai suoi luoghi comuni: ci sarebbero dozzine di esempi per sottolineare il declino, tragico, dei mass media generalisti.

Ci bastava comunque, martedì 28 gennaio, in occasione della Planai (lo slalom più importante del mondo), la schermata del giornale che organizza (anche) il Giro d’Italia; che della gara di Schladming non si occupava affatto.

L’interesse e il titolo erano incentrati sull’invasione di pista di una streaker, durante la seconda manche: la caccia ai clic e ai tre oracoli del macchinario postmoderno (estrazione dati, surplus comportamentale e renderizzazione) non conoscono vergogna.

26 giugno 1996, il liceale Kobe Bryant viene accolto dal commissioner David Stern sul palco del Madison Square Garden: scelto col numero 13 dagli Charlotte Hornets, verrà girato (per Vlade Divac) ai Los Angeles Lakers. Un’altra magata di Jerry West.

Il lutto globalizzato per un gigante dell’NBA come Kobe Bryant ha evidenziato la povertà, disarmante, del nostro sistema informativo. Articolesse scritte – in fretta – cavalcando l’onda emotiva dell’istante, prive di un’ermeneutica sull’argomento, fastidiose per approssimazione ed enfasi.

Ci si deve sorbire la celebrazione del Black Mamba con la maglietta del Milan, a mò di esca per i tonni pallonari, come se il tifo a una squadra di calcio fosse l’argomento centrale della vicenda.

L’amarcord su Kobe italiano (!), quando dovrebbe essere evidente (e giusto) considerare quegli anni, al seguito del padre Joe nella leggendaria Spaghetti League, come una parentesi (allegra) di un ragazzo americano che sognava (e desiderava) gli States.

Mancavano un paio di riflessioni, banali ma non troppo, non su Kobe il campionissimo, ma attorno a quel periodo (fondamentale) che ci portò dal Jordanismo ad altro: le abbozziamo.

Bryant appartiene alla più forte classe di sempre: il draft 1996. Una combinazione di eventi, l’NCAA ancora matrigna e scuola di talenti, i liceali ammessi al Gran Ballo, l’apertura definitiva ai cestisti FIBA, permisero un’annata irripetibile.

La celeberrima copertina di Slam che annunciò il draft 1996.

Che venne ritratta in gruppo, con un presagio felice, da una copertina iconica di Slam (“Ready Or Not.. here they come!”). In ordine di scelta, saltando qualcuno: Allen Iverson, Marcus Camby, Shareef Abdur-Rahim, Stephon Marbury, Ray Allen, Antoine Walker, Kobe Bryant, Predrag Stojakovic, Steve Nash, Jermaine O’Neal, Zydrunas Ilgauskas, etc. In meno di un mese, l’NBA del boom ha perso due figure dominanti: David Stern, il dirigente sportivo più importante dello sport professionistico americano, e Kobe Bryant, l’atleta manifesto della lega tra l’evo di Michael Jordan e quello di LeBron James.

Nell’era dell’espansione e della fama mondiale, con un successo finanziario senza precedenti, il big bang portò anche altro. Qualcosa di oscuro e osceno, non quanto accadde negli anni ruggenti dell’eurobasket (gli Ottanta, politicamente corrotti), ma con dinamiche da overdose di ricchezza: i dati televisivi d’ascolto, l’influenza delle superstelle, i conflitti di interesse, gli arbitri, le scommesse.

Qualcuno forse dall’altra parte dell’Atlantico, col carbonio-14, perlustrerà meglio nei meandri di una vicenda, carsica, che cominciò dalle parti del 1992, 1993 e si concluse – con il pugno di ferro di Re David – dopo le Finals 2006.

Il centro di gravità permanente fu la (magnifica) finale occidentale 2002 tra i Lakers e i Kings. Pistola fumante, che odorò subito di combine grigia, la Gara6 che portò la serie alla bella.

Quei 27 tiri liberi losangelini (nell’ultimo quarto!) e un metro arbitrale ambiguo: citando proprio Phil Jackson (sic), quella sera l’abbiamo asteriscata a futura memoria.    


Al termine di Australian Open brutti, sporchi e cattivi, si impone – più di testa che di braccio: ed è il secondo Slam consecutivo così, non un caso – un Novak Djokovic che sembra scrivere, nella seconda (e ultima) parte della carriera, il manuale del tennis percentuale moderno.

Lo fa con merito, abitando al meglio il momentum del match e ribaltando una situazione (quasi) disperata, contro Dominic Thiem: che, dall’anno scorso, è il miglior giocatore quantitativo del circuito.

Eppure, su una superficie che ne esalta la forza – soprattutto del diritto – e i miglioramenti tecnici (lo slice sul servizio..), l’austriaco conferma il suo ruolo da perdente di successo, un Andy Murray (in minore) nell’era della transizione eterna.

Sul più bello, per lui, nel quarto parziale, Thiem smette di imitare lo Stan Wawrinka degli anni giusti e arretra il baricentro: le catenate un metro più indietro e col braccino, comunicano alla testa di Nole (un calcolatore tennistico sopraffino, cinico e baro) uno scenario insperato.

Il resto, sul filo (il serbo si impone, dopo 3 ore e 59 minuti, 6/4 4/6 2/6 6/3 6/4), sta nella gerla di un giocatore straordinario che amministra sé stesso, rovescio e battuta de luxe, e la paura dell’altro.

Che era evidente anche quando il numero quattro del mondo, nei quarti, aveva affrontato Rafa Nadal ma che l’iberico – a dispetto della consueta lucidità tattica – non era riuscito a sfruttare. Banale ridurre la parata a quello, ma il pattern Sandgren versus Federer (con le differenze stilistiche di rito) è uno dei leit motiv di questa ATP. L’aver omologato tutto, riduce anche il personale pronto al colpaccio: la morìa degli specialisti, che stravolgevano i tabelloni dei major fino agli anni Zero, seleziona gli scapigliati con il curriculum, le memorie positive, per infilzare il mammasantissima di turno.

La cazzimma di Novak Djokovic, all’ottavo scalpo dello Slam down under.

Il GreenSet appena implementato ci è parso, nelle condizioni particolari dell’estate australe, un mezzo fallimento.

Al di là dei (due) colpi d’inizio scambio, performanti il giusto, i rimbalzi alti che – la sera – diventavano altissimi, obbligavano a un gioco (logorante) d’attesa: al netto del meteo, tre Slam su quattro sono sempre più simili e il quarto (il più iconico, Wimbledon) dipende anch’esso da Giove Pluvio.

Nel 2017, un’edizione storica, il vecchio Plexicushion, in pista dal 2008, era stato velocizzato ad hoc.

Il Court Pace Index, pur essendo un valore basato solo sulla superficie, ci raccontava la storia di queste scelte: il 42 di quell’anno fece di Melbourne il major più veloce rispetto ai Championships (37) e a New York (35,4).

Il cemento aussie 2020 non ha ancora il dato preciso di CPI: pareva dalle parti di Flushing Meadows, addirittura (nelle sedute serali, più umide) con dinamiche prossime al 1000 di Miami era Key Biscane (che a metà anni Dieci aveva un CPI di 33,1).

Una superficie collosa, ruvidissima: impressionante, vedere i batuffoli gialli delle palle Dunlop – sbranate dagli impatti con le racchette e l’acrilico – conficcati negli interstizi del manto.

La situazione, alla vernice del GreenSet, ci è sembrata scappata di mano all’azienda di Javier Sanchez (e agli organizzatori dell’Happy Slam): a meno che i procteriani non volessero incrementare le richieste di Medical Time Out, per aggiungere – durante la pausa tivù – cinque minuti di spot pubblicitari.

Magari sui vantaggi dei farmaci antidolorifici sugli atleti.